Comitato Territoriale

Bat

INTERVENTO CONVEGNO PEDIATRI 20.11.2013

Con quale chiave di lettura la Sip e l’Uisp guardano al fenomeno del drop out giovanile?

Oltre all’abbandono tout court della pratica sportiva, l’aspetto che ci preoccupa particolarmente è che questa fuga silenziosa si traduce nell’acquisizione di uno stile di vita sedentario (senza stadi intermedi), e va ad ingrossare le fila di quel 40% di cittadini italiani che non accedono a occasioni di movimento e non praticano stili di vita attivi e sani (teniamo conto che già in età scolare – 6/10 anni – la percentuale dei sedentari è del 23% come testimonia il Libro bianco dello sport italiano del 2012). E a livello europeo (indagine Eurobarometer) l’Italia ha livelli di sedentarietà ben superiori alla media (15% Eu), che nella fascia di età 15/24 diventano più che tripli (7% Eu, 24,6% It).

E’ questo il vero problema, sociale, sanitario ed educativo, se intendiamo l’attività sportiva e motoria finalizzata a indirizzare a stili di vita sani volti a ridurre la sedentarietà e salvaguardare la salute dei cittadini in tutte le fasce di età, oltre ad offrire opportunità di socializzazione.

Ed è l’obiettivo primario dell’Uisp, che ha avviato da anni in un percorso coerente campagne poliennali preventive di sensibilizzazione per bambini e famiglie (“Diamoci una mossa” e “Pronti, partenza, via!” – in collaborazione con Save the Children), a cui ha chiamato a collaborare la scuola, pediatri, nutrizionisti, operatori socio sanitari, inserendosi nel programma Guadagnare salute del Ministero, e con ottimi risultati validati scientificamente.

Non esistono dati organici a livello nazionale (né europeo) sul fenomeno dell’abbandono sportivo nella fascia di età adolescenziale, ma sono state condotte in questi anni una serie di ricerche a livello locale i cui risultati convergono sull’analisi qualitativa del fenomeno e sulle sue motivazioni.

In riferimento alle ragioni del drop out, in estrema sintesi possiamo parlare di quattro categorie:

Questioni tecniche:          mancanza di divertimento

                                                mancanza di successo

                                                stress da competizione

                                                noia/ monotonia

                                                infortuni sportivi

                                                eccessiva fatica     

                                                livelli di competitività esasperati

                                                incomprensioni con l’allenatore

 

Rapporti interpersonali:      assenza appoggio dei genitori

                                                   difficoltà coesione di gruppo

                                                     rapporto genitori/allenatori

                                                     compagni non adeguati

 

Contesto sociale:    difficoltà scolastiche

                                  mancanza di tempo

                                  crisi adolescenziale

                                  altri interessi prevalenti

                                  non conciliabilità con lo studio

                                  crisi economica

 

Contesto sportivo:    difficoltà a raggiungere l’impianto

                                    costi elevati

                                    ambiente non adeguato

                                    strutture carenti

                                    orari scomodi

                               

Analizzando i dati ISTAT 2012 sullo stile di vita degli italiani (19 milioni di praticanti sportivi – 32% della popolazione, 16 milioni che svolgono un’attività fisica – 28%, 23 milioni di sedentari – 40%), si possono trarre alcune riflessioni: le percentuali di non attivi aumentano in maniera progressiva a partire dagli 11 anni e hanno un deciso incremento dai 18/19.

Le ricerche condotte ad esempio in questi anni dal Coni di Latina, da quello della regione Abruzzo, dalla Scuola dello sport di Trento e di quella delle Marche, dall’Università e dalla Fondazione dello sport di Parma situano in un range superiore al 30% la percentuale di abbandoni da parte degli adolescenti rispetto ai coetanei praticanti, con un dato di genere che vede prevalere il drop out nelle ragazze.

Tornando alle ragioni prima schematizzate, potremmo parlare di un abbandono fisiologico e uno patologico: per quanto riguarda il primo è inevitabile un mutamento di interessi e di priorità nella vita dei giovani, oltre all’accresciuto impegno nello studio, e su questo aspetto è difficile pensare di poter incidere sensibilmente; sul secondo, che implica un rifiuto che sfocia nella sedentarietà, dobbiamo interrogarci su quali siano le insufficienze dell’offerta di sport che accelerano il distacco o non fanno nulla per contenerlo, in una incapacità di rinnovarsi e di offrire modelli nuovi e più interessanti, che derivino  da un’analisi seria dei bisogni e delle aspettative dei ragazzi.

E anche il Tavolo nazionale per la governance nello sport (2012) riporta che la mancanza di interesse ha costituito la ragione principale dell’interruzione della pratica nei giovani under 18, accanto agli impegni scolastici.

Per capire i motivi del drop out bisogna risalire alle molle iniziali che spingono i ragazzi a intraprendere un’attività sportiva: e varie rilevazioni concordano su alcuni aspetti, il divertimento, la voglia di giocare, di fare parte di un gruppo, di conoscere nuovi amici, di stare bene e migliorare le proprie abilità. Se i giovani non trovano più soddisfatti questi loro bisogni primari, vivono lo sport come un obbligo e una fonte di insicurezza, non di gratificazione, e quindi lasciano, per riacquistare libertà.

Il modello proposto dagli adulti e costruito sui loro paradigmi spesso non prevede gioco, gioia, allegria: al loro posto pressioni eccessive, agonismo esasperato fin da giovanissimi, il risultato e la vittoria a tutti i costi, l’illusione preclusa di diventare campioni, genitori e allenatori troppo esigenti e pressanti, che riversano sui ragazzi aspettative insostenibili, allenamenti noiosi, mancanza di supporto emotivo nei momenti delle sconfitte. E interroghiamoci anche se le radici di questo modello non affondino già nella fascia di età dell’infanzia, in una sorta di incubazione che porta poi i ragazzi a rifiutarlo quando hanno la possibilità di compiere questa scelta.

Sia ben chiaro, la componente agonistica è innata, a nessuno piace perdere, ha anche una valenza positiva nella crescita psichica ed emotiva degli adolescenti; ma va assolutamente rifiutata come unico obiettivo, indispensabile per essere accettati e avere successo.

Il drop out sportivo è un fenomeno inarrestabile e carsico, che riguarda tutto il sistema sportivo, e che emerge all’attenzione quando fatti di cronaca come gli episodi di violenza e intolleranza che coinvolgono atleti, dirigenti e genitori nei campionati giovanili o scolastici fanno riflettere sulle distorsioni del modello.

O quando, come di recente, un padre viene rinviato a giudizio per aver obbligato il figlio a svolgere ossessivamente un’attività agonistica, inducendolo anche ad assumere prodotti iperproteici.

Sono degenerazioni che vanno affrontate, non rimosse, non imputando però le responsabilità solo ai genitori o agli allenatori, ma anche alla cultura collettiva del sistema Paese, che deve affrontare la questione dell’educazione motoria e sportiva dei bambini e dei ragazzi con azioni di sistema, coinvolgendo tutti gli attori istituzionali e sociali, a partire dalla scuola, e partendo da un assunto: lo sport deve essere prima di tutto un gioco e un piacere, oltre che un diritto, per tutti.

E’ necessario un approccio trasversale, che preveda buone pratiche qualitativamente in grado di contrastare il fenomeno della sedentarietà, e da qui siamo partiti come Uisp, guardando alle nuove tendenze dei giovani rispetto all’attività sportiva e all’espressione corporea.

Parliamo di attività destrutturate, postmoderne, come il parkour (che traccia percorsi nuovi nella città superando gli ostacoli), la street dance, l’hip hop, gli sport della glisse (scivolamento) praticati con gli skate, i monopattini, lo snowboard, le giocolerie (che esaltano la maestria e le abilità manuali).

Il campo di azione è la strada, dove i ragazzi “orientati all’avventura” si auto- organizzano lontano dai luoghi tradizionali dello sport, in autonomia e con grande libertà espressiva; sono esperienze basate non sull’etica del sacrificio e sul risultato, sulla vittoria, ma sul coraggio, sull’estetica del talento, sulla creatività, sulla centralità delle sensazioni, delle evoluzioni acrobatiche, del valore di esperienza di gruppo.

La crew è la comunità nella quale i ragazzi si riconoscono e a cui scelgono di appartenere, dove producono la loro cultura e mantengono le relazioni attraverso la rete, con i loro linguaggi espressivi, autogestendosi le attività sportive, al di fuori e spesso in contrasto con il sistema tradizionale.

Per loro è anche un modo di vivere gli spazi urbani in forme alternative, spazi che spesso percepiscono come ostili, non accoglienti, cercando di riappropriarsene in nuove forme di socialità.

In molti Paesi questi sport postmoderni che nascono dalla strada sono riconosciuti, al punto da concedere loro spazi e tempi opportuni; non è così in generale in Italia, e questo ritardo non permette di valorizzare i punti di forza e di vitalità delle esperienze motorie giovanili, che non si basano su canoni disciplinari e su regole rigide e eterodirette, ma scelte autonomamente all’interno del gruppo, adattate e modificate in funzione di un obiettivo di gratificazione personale e collettiva.

Il progetto Percorsi Indysciplinati, finanziato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali attraverso la legge 383, nelle nostre intenzioni vuole essere un’occasione per facilitare queste forme espressive degli adolescenti, attraverso la costruzione di dieci laboratori sperimentali, dove la strada è vista come uno spazio e un tempo di azione pedagogica.

1.500 ragazze e ragazzi in 10 città (Barletta, Bergamo, Genova, Lanusei, Messina, Padova, Pisa, Reggio Emilia, Torino, Trieste) sono gli attori protagonisti di questa sperimentazione che si sta sviluppando in una prima fase nelle scuole con laboratori di sport destrutturati e successivamente prevederà l’organizzazione di eventi, esibizioni, contest fino ad una performance finale.

Il primo elemento qualificante di questo progetto riguarda la partecipazione progettuale attiva degli adolescenti a tutti i momenti: per contrastare la sedentarietà, dobbiamo evitare che si sentano interpellati come fruitori di un servizio programmato a monte, ascoltare le loro aspettative e i loro bisogni significa necessariamente renderli cittadini attivi protagonisti di tutte le scelte, da quelle nella scuola a quelle relative alla comunicazione, alla realizzazione degli eventi, alla produzione di un video finale che racconti le storie degli indysciplinati, al possibile ridisegno degli spazi urbani.

Quest’ultimo è l’altro obiettivo ambizioso che ci siamo posti: coinvolgere le istituzioni locali nell’individuazione di aree pubbliche che possano essere riqualificate e riprogettate per ospitare queste attività, come luoghi di socializzazione autogestiti dai giovani che rappresentino un bene della comunità.

E’ un modo per consolidare i risultati della sperimentazione a medio/lungo termine, e ragionare in termini di urbanistica partecipata che coinvolga anche gli adolescenti, investendo sul loro futuro.

Per ottenere questi risultati è necessario che il progetto si sviluppi attraverso reti sociali ampie, che coinvolgano gruppi informali, associazioni, istituzioni, competenze qualificate, in un lavoro sistematico che valorizzi i ruoli di tutti, a partire dalla scuola, che deve poter partecipare alla definizione dei processi e delle proposte in tutte le fasi, non limitandosi ad ospitare i primi momenti della sperimentazione.

Le reti saranno la forza di Percorsi Indysciplinati, per lo scambio di esperienze tra le città, miscelandole e connettendole, per i laboratori locali, per la contaminazione creativa tra i ragazzi attraverso i social network.

Per misurare la coerenza tra obiettivi iniziali e risultati raggiunti, come prassi consolidata nei nostri progetti, è prevista un'azione di monitoraggio e controllo affidata ad un gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute dell’Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

Siamo consapevoli che anche per l’Uisp questo è un banco di prova, perché implica una scelta di cambiamento nell’approccio associativo, un mutamento nei nostri codici comunicativi, nelle logiche organizzative, nelle politiche sociali ed educative, nei profili e nelle competenze dei nostri operatori, chiamati ad essere anche educatori di strada informali.

Abbiamo cercato di capire, ascoltare, organizzando stage e momenti formativi in questi ultimi anni: vogliamo dare un contributo positivo, costruire buone pratiche efficaci, anche con la collaborazione di tutti voi. E vi invitiamo fin da ora agli eventi finali di Indysciplinati a maggio 2014.