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Emilia-Romagna

24 giugno: Pugni chiusi

Oggi a Rimini si è celebrato il sessantotto. Nel nostro comunicato stampa ci si chiedeva cosa rimanga del pugno chiuso e guantato di John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi messicane di quarant'anni fa, se quel gesto rappresenti ancora un'icona capace di sopravvivere nel tempo con la medesima intensità o sia meramente relegato nel campo dell'archeologia dello sport.

Elaborazione grafica della famosa foto di Smith e Carlosdi Vittorio Martone


Oggi a Rimini si è celebrato il sessantotto. Nel nostro comunicato stampa ci si chiedeva cosa rimanga del pugno chiuso e guantato di John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi messicane di quarant'anni fa, se quel gesto rappresenti ancora un'icona capace di sopravvivere nel tempo con la medesima intensità o sia meramente relegato nel campo dell'archeologia dello sport. Il pretesto di una simile interrogazione è derivato dalla presentazione del libro "Pugni chiusi e cerchi olimpici" dello storico Sergio Giuntini, che si è svolta nell'area convegni del Villaggio dello Sport. Uno spazio che definire sovraffollato sarebbe iniquo ma che, nonostante il caldo e l'indolenza estiva, rappresenta un importante luogo di riflessione nel corso di questo festival.

Pensando a Mexico City nel '68 a me piace ricordare anche la vicenda di Peter Norman, l'atleta australiano morto a Melbourne il 3 ottobre del 2006 e arrivato secondo alla fine di quei 200 metri che consegnarono alla storia la protesta dei due atleti afroamericani. Gran parte dell'efficacia mediatica del gesto di Carlos e Smith la si deve a lui, almeno dai ricordi che mi derivano da un vecchio articolo che non sono più riuscito a reperire. Questo l'aneddoto, sperando che quanto vado a raccontare non sia il frutto della mia fantasia: fu l'australiano a suggerire ai compagni di gara, dotati di un solo paio di guanti neri che avrebbero dovuto essere indossati dal primo arrivato, di dividerseli e compiere insieme il famoso gesto di rivendicazione del "Black Power". Fu grande in quell'occasione la cooperazione di Norman, il cui impegno nella tutela dei diritti di uguaglianza e parità non si è fermato a quel consiglio, ma è proseguito con un'incessante attività per tutta la sua vita.

Riguardare a questi eventi sotto il filtro dell'antirazzismo, del superamento dei pregiudizi, della lotta politica e sociale per l'uguaglianza mette in una condizione particolare. Nessuno di noi è un santo disposto al sacrificio e nessuno cerca la canonizzazione, come forse ingenuamente si crede quando si pensa agli operatori nel campo della cooperazione. Il lavoro sociale di quest'associazione passa innanzitutto per il riconoscimento dei problemi, e poi per il razionale e lucido tentativo di risolverli e migliorare la situazione. C'è poi un processo intimo, di riconoscimento del sé, dei propri limiti e delle proprie barriere che, con il fine di superare questi ostacoli, passa per il continuo rapporto con la propria umanità, al di fuori di qualsiasi mitizzazione.

Questa umanità io l'ho assaggiata già in queste prime serate riminesi quando sul tardi, conclusi anche gli spettacoli e le danze notturne, ci si è ritrovati tutti insieme a tavola tra canti e bicchieri di vino. Le ballate popolari e, non ci nascondiamo, i vecchi canti partigiani e comunisti riemergevano in cori improvvisati "intonati" da tutti i membri dell'associazione. Questa informalità dell'Uisp, la stessa che porta alti dirigenti a prestare servizio volontario in settori come la cucina o la raccolta differenziata, è secondo me la base su cui si sviluppano le enormi risorse che sto vedendo in campo in questi giorni. "Nessuno è imprescindibile, tutti siamo necessari" recitava una vecchia formula che nella mia memoria ha il suono e la lingua spagnola della voce di Jorge Coulon degli Inti Illimani: è in questo spirito che ognuno di noi sta fornendo il proprio contributo su altissimi livelli di professionalità e resistenza.

Ma tornando ai canti, in quelle serate ho rivissuto momenti dell'adolescenza avellinese, quando si andava per falò nelle montagne dell'Irpinia con carichi di damigiane, salsicce, chitarre e tamburi, e ci si cullava dello spirito rivoluzionario giovanile e di provincia di cui poi resta sempre un po' difficile liberarsi. Anni di difficoltà lavorative e di travagli politici nazionali avevano determinato in me una sorta di isolamento e di rigetto, di cui non ho visto traccia nella fiducia e nell'impegno dei molti membri di questa associazione. Da qui l'idea di una forma di adolescenza dello spirito, unita al corpo maturo che è stato in grado di organizzare tutto ciò che mi circonda, che mi porta ad ipotizzare un bel futuro per l'Uisp. E quindi giù a cantare, e a risentirsi nuovamente parte di un impegno collettivo.

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