Comitato Regionale

Emilia-Romagna

26 giugno: Bassa marea

Inutile mentire, il tempo di svagarsi un po' in questi giorni pieni di impegni lo si trova, "ce lo si inventa" per dirlo alla toscana, o comunque lo si raschia via dalle ore notturne che avrebbero dovuto essere riservate al sonno.

Scrutando le mareedi Vittorio Martone


Inutile mentire, il tempo di svagarsi un po' in questi giorni pieni di impegni lo si trova, "ce lo si inventa" per dirlo alla toscana, o comunque lo si raschia via dalle ore notturne che avrebbero dovuto essere riservate al sonno. È così, tirando lunga una notte che avrebbe dovuto terminare molto prima, che mi sono trovato questa mattina alle sei e mezza sulla spiaggia di San Giuliano Mare. Giornata di bassa marea quella di oggi. Passeggiando da solo sul bagnasciuga, con i pantaloni arrotolati "alla pescatora" e l'acqua fresca e ancora limpida del primo mattino a lambire i piedi, ho assistito al rito locale della raccolta della granchi. Con l'acqua del mare che si è ritirata, lasciando solo due centimetri e mezzo di distanza tra la sua superficie e il fondo della pianura che si allunga nell'Adriatico, raccogliere i crostacei infatti è cosa decisamente più semplice. I movimenti della cattura riescono molto più rapidi, data la minore resistenza dovuta alla riduzione del volume dell'acqua. Meglio ancora, poi, se la mano che deve afferrare il malcapitato granchio è quella esperta di un vecchio.

E difatti questo rito mattutino e cadenzato dalle influenze della luna è appannaggio esclusivo degli anziani, che a coppie di uomini e donne si aggirano scrutando il fondo sabbioso muniti solo di schiene flessibili, dita agili e sacchetti di plastica. Molte di queste coppie sono già formate in partenza, altre le ho viste crearsi in maniera estemporanea sulla base di un saluto e di qualche commento svagato. Queste ultime, però, non so come si accordassero per la divisione finale del pescato, visto che nel passeggiare, catturar granchi e chiacchierare i rispettivi sacchetti finivano progressivamente con il perdere la qualifica di oggetti individuali e diventare invece bene comunitario.

Osservando tutto ciò, mi frullava per la testa il motivo di "Alta marea" di Venditti, cover molto libera del brano "Don’t Dream It’s Over" del gruppo neozelandese dei Crowded House. Canzone molto bella, soprattutto per il testo della versione originale. Poi subito dopo mi sono sentito un po' troppo romantico, e quindi ridicolo (cosa peraltro inevitabile, forse, nel giorno del mio compleanno, con i brindisi e i bagordi della notte appena trascorsa ancora addosso). Il fatto è che le immagini di questa Rimini inconsueta mi hanno riportato indietro alla mia Maiori, il mio paese in costiera amalfitana, e al gusto che ho sempre avuto di viverne fino in fondo il suo lato umano e quotidiano, diverso dai ritmi diurni dedicati al turismo estivo. E mi è venuto da riflettere sul nostro ingresso in questa realtà già di per sé particolare che è la riviera romagnola e il comune di Rimini. Un luogo votato in qualche modo alla perdita d'identità, cui contribuisce non solo l'arrivo stagionale di frotte enormi di turisti, ma anche la "fantasiosa" architettura dei numerosissimi alberghi, che va dal kitsch allo stile palazzoni anni '70 fino al magnifico esempio di onirismo sfrenato del Grand Hotel, non a caso citato e ripreso sia in "Amarcord" di Fellini che in "Polvere di stelle" di Sordi. Questa perdita d'identità forzata fa il conto con il desiderio dei locali di tenersi stretto il proprio rapporto privilegiato con i luoghi (cosa tipica di molti posti di mare) ed esempi di questa indole li si trovano in diversi punti della città. Il più bello, per me, resta il quartiere di via della Chiavica, vicino al ponte di Tiberio, le cui casupole a due piani sono affrescate esternamente con dipinti di ispirazione, non a caso, felliniana.

Ma parlavo dell'arrivo del "baraccone" Uisp qui a Rimini: una "invasione colorata" l'ho definita in uno degli articoli pubblicati in questi giorni sulla stampa locale. Il feedback della popolazione riminese rispetto a questa nostra presenza lo sto raccogliendo, come mio solito, in maniera non ufficiale. Si tratta di un'indagine fatta presso i baristi che mi ospitano per la colazione mattutina o dal giornalaio che mi tiene da parte il paccone di giornali che ogni giorno mi trasporto fino all'ufficio per la consueta rassegna stampa e, ancora, passata per i vari portieri del mio albergo (con dei turni sgangherati più dei nostri) e per la gente che incuriosita mi chiede - chiaramente attratta dal pass che mi qualifica come membro dello staff e che ormai è diventato un'appendice del mio corpo - che cosa diavolo stia avvenendo nella Darsena di San Giuliano.

Credo che la comunicazione di questo evento debba rimanere ancorata anche a queste forme di passaparola, motivo per cui ogni volta mi fermo a raccontare, partendo da lontano, cosa voglia dire questa celebrazione dei nostri sessant'anni e quanto essa rappresenti per l'associazione un punto di una nuova partenza, un contesto da cui prendere nuovo slancio come in quello che nel gergo del ciclismo su pista si definisce "cambio all'americana" (che consiste nel prendersi per mano tra due corridori di cui il primo lancia attraverso uno strappo del braccio quello che subentra e che dovrà continuare la gara). Questa forma personale di comunicazione, in barba alle ore passate davanti al computer e al telefono, è quello che mi permette di rimanere ancorato alla realtà, convito che per quanto la dimensione mediatica sia importante e debba essere curata con meticolosità, è in fin dei conti l'approccio umano che caratterizza un'associazione come l'Uisp. Inoltre, essa è molto legata anche al mio istinto, che mi porta sempre a cercare di entrare a far parte dei contesti in cui mi trovo, evitando di sentirmi un turista spaesato e prendendo invece i panni del viaggiatore che diventa abitante locale.

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