Nazionale

Gli sportivi rompono l'solamento nel nome di George Floyd

Anche lo sport mondiale è sceso in campo dopo lo choc per la morte di George Floyd. L'impegno contro il razzismo dell'Uisp e della Rete Fare

 

C’è chi ha scelto di cantare “Freedom”, chi ha pubblicato il pugno chiuso sul proprio profilo Facebook, chi si è inginocchiato come fece Colin Kaepernick, campione di football americano nel 2016, durante l’inno: il contagio emotivo contro il razzismo ha smosso finalmente anche lo sport. E ha preso il posto del contagio da virus e del contagio da conformismo. “Justice for George Floyd”è stata la maglietta indossata da Jadon Sancho del Borussia. L’americano McKennie (Shalke) sulla fascia da capitano ha scritto a mano “George”. Il 25 maggio scorso era soltanto un “afroamericano” di 46 anni ucciso a Minneapolis mentre era in custodia delle forze di polizia. Col passare delle ore la barriera negazionista è stata travolta da un’onda mai vista prima: George Floyd ha acquistato identità in tutto il mondo, morto per razzismo, la falsa coscienza dell’America. L’agente Derek Chauvin, che per quasi 9 minuti ha bloccato a terra la vittima, premendo le ginocchia sul collo e sulla schiena dell’uomo è stato arrestato con l’accusa di omicidio di terzo grado. 

La protesta sociale è partita dal basso, ha visto protagonisti cittadini e persone comuni, famiglie e associazioni per i diritti civili, giovani e lavoratori, attivisti neri e bianchi, che hanno espresso uno sbarramento al razzismo. E lo sport finalmente è uscito dall’isolamento, l’indignazione e la rabbia hanno scardinato le ipocrisie e le timidezze. I giocatori di Chelsea e Liverpool, così come quelli di Torino e Roma qui da noi, si sono inginocchiati al centro del campo. Lewis Hamilton, per la prima volta nella storia della F1, si è portato dietro tutti i piloti del circo dei motori, in uno “sport per bianchi, dove sinora non si era fatto sentire nessuno”.

Ieri c’è stato il primo dei tre funerali previsti e la famiglia Floyd ha affidato il discorso principale al pastore newyorkese Al Sharpton, figura di spicco nelle battaglie per i diritti civili: "Stiamo insieme, americani di diverse comunità e generazioni. Stiamo insieme e stavolta possiamo cambiare le cose".

Già, cambiare le cose. Per quanto riguarda lo sport praticato e non soltanto l’ambito delle “testimonianze” (pur necessarie), cambiare le cose potrebbe significare smettere di minimizzare sui buu razzisti sugli spalti e sulle offese razziste in campo, come chiede l’Uisp da tempo. Non minimizzare significa non voltarsi dall’altra parte, significa da parte degli arbitri prendere provvedimenti e sospendere le partite. O anche favorire in tutti i modi l’inclusione attraverso lo sport, consentendo ai molti ragazzi e ragazze rifugiati e richiedenti asilo di inserirsi con piena legittimità dagli ordinamenti sportivi e dai regolamenti federali.

L’impegno antirazzista deve durare tutto l’anno: lo ripete e lo pratica da sempre l’Uisp che promuove sul territorio decine di iniziative per l’inclusione, contro ogni discriminazione, con l’Almancacco delle iniziative antirazziste e i Mondiali Antirazzisti. Ma anche con proposte come quelle dell’Osservatorio contro le discriminazioni nello sport che l’Uisp, insieme all’Unar, ha proposto da tempo. (I.M.)

Razzismo e sport, temi costanti di impegno per la Rete Fare-Football Against Racismo in Europe, della quale fa parte anche l'Uisp. Pubblichiamo questo articolo di Raffaella Chiodo Karpinsky (Rete Fare):

La pandemia permanete del razzismo e l’inchino dello sport.
Non abbiamo fatto in tempo a capire che stavamo entrando in una fase nuova, di progressiva uscita dalla quarantena forzata per il COVID 19, ed eccoci precipitati nel tunnel dell'ennesimo atto di violenza brutale di un poliziotto su un uomo inerme, a terra, mentre dice che non riuscire a respirare. l'ormai tristemente noto "I can't breathe" .

Dall'America profonda ci arriva e senza mezze misure uno schiaffo, a ricordarci, che oltre al virus ci sono pandemie ataviche e permanenti che nei secoli permangono radicate in una parte della società americana così come in molta parte della vecchia Europa. Il razzismo è una forma di cattiveria e stupidità che purtroppo trova ancora terreno fertile in quel grande magma multiculturale che sono gli Stati Uniti. Terra di "conquista", di deportazione degli schiavi dall'Africa, sottomissione e confinamento nelle riserve di popoli nativi e al contempo da secoli meta del sogno della libertà e di riscatto per milioni di migranti da tutti gli angoli del pianeta. Una terra difficile, anzi impossibile da riassumere in una sola definizione. Un crogiuolo consolidato di mondi, lingue e culture.

Le diverse comunità fatte di identità etniche che non si sono mai facilmente mischiate fra loro. Eppure è quella stessa terra di simboli e lotte per i diritti civili che vivono nelle nostre menti, nel nostro immaginario, nelle nostre parole e versi quotidiani. La resistenza fiera di Rosa Parks, il coraggio e la forza di idee Martin Luther King, l'intransigenza di Malcom X, la resistenza di Angela Davis e Mohammed Ali, ma anche le storie di Jesse Owens , John Carlos e Tommie Smith. Questi ultimi, simboli dello sport per i diritti civili, simboli cari a noi dello sport sociale e di base che abbiamo scritta nel nostro DNA la lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione.

E’ lo sport a stelle e strisce ad averci raccontato tante storie piene di significato e rappresentazione della lotta al razzismo, la rivendicazione di diritti civili e uguaglianza per tutti. Da Owens a Berlino che vince davanti a Hitler. A vincere non è solo la sua forza fisica ma anche quella umana e politica dei gesti e delle parole scambiate con il campione tedesco Ludwig Long. Gesti e parole di complicità tra i due atleti che porteranno alla vittoria di Owen su Long. HItler avrebbe voluto vedere Long, ariano puro, sconfiggere quell’affronto rappresentato dall’atleta nero d'America. Il linguaggio e la diplomazia spontanea nata fra i due sarebbe stata destinata a diventare una lunga relazione di amicizia. Finì invece in tragedia per la morte di Long mandato per punizione da Hitler al fronte e in prima linea proprio per mano degli americani in Sicilia durante la guerra. Altro episodio simbolo di questa lunga storia, quello delle Olimpiadi di Messico '68 quando Tommie Smith e John Carlos a piedi nudi, salirono sul podio della premiazione e al momento dell'inno chinarono il capo e alzarono il pugno nel guanto nero. Sul loro petto un distintivo simbolo della campagna per i diritti civili dell'Olympic Project for Human Rights.

Gesto condiviso da Peter Norman, atleta bianco australiano, anche lui sul podio classificato secondo nella gara. Il gesto, passato alla storia come il più dirompente nelle prime Olimpiadi in diretta TV mondiale, costò non solo la cacciata dalle Olimpiadi dei due atleti americani, ma anche all'australiano che continuò a subire in patria vessazioni e discriminazioni per sempre. Ai giorni nostri il gesto che sta rimbalzando di campo in campo, è quello che lanciò il campione di football americano Colin Kaepernick che nel 2016 durante l'esecuzione dell'inno (come accade prima di ogni partita di campionato) si è inginocchiato per esprimere la sua protesta contro la violenza e la discriminazione verso i neri in America. Perfino il presidente Trump è intervenuto per stigmatizzare la protesta di Kaepernick che da quel momento finì emarginato e perse ogni ingaggio.

Oggi il suo grido sta attraversando anche i campi di calcio in Italia, gli unici riattivati dopo il lockdown in vista della ripresa del campionato. I giocatori della Roma, Torino hanno seguito quelli del Chelsea che per primi si sono inginocchiati e a loro volta seguiti in casa da quelli del Liverpool. Un gesto importante accompagnato da messaggi Instagram e Twitter di alcuni dei calciatori per sottolinearne il senso e rilanciare la necessità di cacciare una volta per tutte il razzismo dalla società e dagli stadi dove troppe volte sono risuonati parole e gesti razzisti. Sarebbe bene che questi gesti, affinchè la lotta sia credibile perché profonda e a 360° venga sviluppata nel corso di tutto l’’anno da parte delle società di calcio e di altre discipline. Infatti per sradicare la pandemia del virus del razzismo, serve un vaccino sociale e culturale a tutto campo. E’ una partita durissima che possiamo vincere solo se si costruisce una strategia e un piano di lavoro di lunga prospettiva. Sogno che nella costruzione della società del domani post COVID, insieme a una maggiore consapevolezza del bisogno di lentezza, relazioni umane più forti, consumi più ponderati, rapporto più giusto con la natura e l’ambiente che ci circonda, riuscissimo a estirpare il razzismo.

Le conseguenze della pandemia e le crescenti diseguaglianze rappresentano purtroppo un rischio concreto di un nuovo e vecchio virus. Quello della ricerca del nemico su cui scaricare la propria rabbia. Questo è il rischio più grande che abbiamo di fronte e con cui dobbiamo attrezzarci a fare i conti. Per questo è necessario trovare in tutti noi, sport sociale e di base e tutto il resto del mondo dello sport, le migliori risorse per trovare il vaccino e costruire l’antidoto culturale per sconfiggere il razzismo che già si sta manifestando nei confronti di rifugiati e richiedenti asilo. Le grandi manifestazioni che si sono svolte in Olanda, in Francia ed altri paesi oltre a quelle negli Stati Uniti, sono impensabili oggi in Italia e non solo perché giustamente si rispetta l’invito a non promuovere assembramenti come forma di distanziamento sociale e prevenzione della diffusione del COVID19. C’è una debolezza politica e culturale strutturale che non considera l’urgenza e l’’importanza della lotta al razzismo come un punto cruciale all’Ordine del giorno. Le immagini della manifestazione del 2 giugno dell’opposizione della destra italiana è non solo il sintomo ma anche la punta di un iceberg che secondo i sondaggi, a livello elettorale vede al momento maggioritaria la spinta al prima gli italiani e con essa tanti altri istinti brutali che nel migrante o nel cittadino italiano di origini straniere identificano il nemico e ne fanno oggetto di discriminazione e razzismo.

Con tutto questo dobbiamo fare i conti senza tante illusioni. Lo sport di base ha il valore sociale, quel potenziale che Mandela ha ricordando così bene al mondo. “Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose al mondo. Parla ai giovani in un linguaggio che capiscono. Lo sport può creare speranza, dove prima c'era solo disperazione. È più potente di qualunque governo nel rompere le barriere razziali. Lo sport ride in faccia ad ogni tipo di discriminazione”. Con la riapertura che gradualmente si verificherà nei prossimi mesi, serve rafforzare e costruire giorno per giorno, nei campi, nelle palestre, nelle piscine, nei prati e nelle strade del mondo dello sport di base, questa sua capacità naturale di condivisione, di linguaggio universale e quella speranza “dove prima c’era solo disperazione”. E’ una sfida e una responsabilità che sta prima di tutto nelle nostre mani. Facciamocene carico e con più coraggio.

Perché senza la spinta del coraggio niente sarebbe cambiato in questo mondo. Non sarebbe finito l’apartheid e non ci sarebbe stata la liberazione di Nelson Mandela. E senza coraggio su certi diritti e conquiste civili, si può anche rischiare di tornare in dietro. La minaccia che risuona negli slogan delle forze della destra e dei gruppi razzisti fa paura e non possiamo subirla o sottovalutarla restando in silenzio. In attesa che si possa ritornare in campo e ripartire con le nostre attività dello sport di base facciamo nostro il gesto di Kaepernick e condividiamo l’hashtag #BlackLivesMatter

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