Nazionale

Capitane coraggiose nell'Uisp: la storia di Emanuela da Sassari

La rubrica a cura della redazione Uisp Sassari racconta donne di sport: si parte da Emanuela e dalla sua passione per lo sport che include

 

Torna "Capitane Coraggiose", la rubrica dell'Uisp Sassari, che riprende un titolo-manifesto lanciato dall’Uisp a livello nazionale, dedicata a racconti e storie di donne che sono il motore della nostra associazione. Si parte con Emanuela e lo sport come strumento d'inclusione. 

Incontriamo Emanuela in una delle tante stanze della sede Uisp. Le domande non sono tante, cinque, forse sei, ma l’intervista durerà un paio d’ore circa. Quando succede in genere i motivi possono essere due: le domande non bastano a tracciare un’intervista completa oppure le risposte sono talmente belle e pregnanti che serve ascoltare di più, andare più a fondo. È quello che è successo una mattina di qualche tempo fa, quando una semplice chiacchierata si è trasformata in un racconto di vita che ha toccato la famiglia, lo sport, la crescita, in un contesto professionale che ha trasformato Emanuela in una donna incredibile - come vuole il titolo di questa rubrica - in una capitana coraggiosa.

Emanuela nasce nel 1976. Quel giorno sua madre, che per la prima volta impara la gioia della maternità, stringe tra le braccia due gemelle. “Siamo quasi identiche e abbiamo fatto tutto insieme, stesse scuole, stessa vita sportiva, stessa università, laureate nello stesso giorno”. Il racconto di Emanuela inizia così. Finiamo presto a parlare di quanto sia complesso costruirsi una propria identità rispetto a un legame così forte.

Due sorelle cresciute nello sport o meglio: “Cresciute a pane e sport”, come sottolinea Emanuela. “Ho iniziato con il basket a sette anni. Della scuola primaria non ho tanti ricordi, ma ho impressa nella mente una mattina in cui la società Sant’Orsola distribuì nella nostra scuola un volantino della scuola basket e decisi, istintivamente, che dovevo farlo, dovevo giocare a pallacanestro”.

Emanuela continua a giocare fino all’età di vent’anni, poi lascia e da fuori osserva la sua squadra crescere fino a raggiungere la massima serie; lei però in quel gruppo non ci sta bene, sono tutte più grandi e poi si tratta di una scelta imposta: “O giochi in quella squadra o niente”. È una scelta che non gli appartiene, si ritira e non tornerà mai indietro. Ritroverà il basket a distanza di tempo ma da una prospettiva diversa, questa volta come coach di una squadra unica nel suo genere, ma questo lo racconteremo a fine articolo.

Un amore, quello per lo sport, oggi più vivo che mai. “Anche ora seguo il basket e il tennis. Da piccola non mi perdevo una partita. Durante l’estate se c’era la finale di Wimbledon preferivo non andare al mare. Mi piaceva provare a entrare nella mente dei tennisti, coglierne la forza e la fragilità; li considero degli esempi di sportività pazzeschi”.

A diciotto anni Emanuela scopre, un po’ per volta, pregi e fatiche del lavoro. È l’anno del diploma e durante la settimana passa l’estate a vendere giornali in spiaggia mentre nel weekend fa la cameriera in alcuni locali della città. Continua a lavorare per tutto il corso dell’università, vuole essere autonoma e badare economicamente a sé. Dopo cinque anni di studi in ragioneria infatti si laurea in Scienze dell’educazione all’Università di Sassari.

Seguendo il consiglio di un’amica decide un giorno di portare il suo curriculum alla Uisp, che nel frattempo cerca nuovi operatori per il servizio SGA-sport, gioco, avventura. Inizia la sua avventura nel sociale a 24 anni, d’inverno all’interno dello SGA e d’estate con Estate Bimbi (centri estivi). Diventa presto coordinatrice e Maria Pina Casula, da sempre figura centrale del comitato sassarese e oggi presidente del comitato regionale Uisp Sardegna, le propone un passaggio importante. “Mi chiede di occuparmi di una mission innovativa rispetto ai progetti portati avanti dalla Uisp fino a quel momento. Mi parla di inclusione della disabilità all’interno di un progetto dal nome eloquente: “Nessuno Escluso”, un percorso che permetteva a bambini e adulti di svolgere attività sportiva presso le nostre ASD e, in ambiente scolastico, di proporre un’attività motoria inclusiva nelle classe con bambini disabili. Partendo dalle abilità del bambino, dalle sue competenze residue, impostavamo un’attività ludico motoria in grado di integrarlo al meglio durante le ore di attività fisica. Il primo giorno entro in palestra con G., un bambino con trapanesi spastica e forti disabilità sensoriali. Usavamo il paracadute, un grande telone colorato in grado di muoversi se agitato dal gruppo. G stava sotto e viveva l’emozione di sentirsi coperto e animato dagli altri, sentiva l’aria che si muoveva, rideva tanto e veniva incoraggiato dai compagni a muoversi. I bambini giocavano con lui perché si sentivano parte di un gruppo. Tutti si sentivano parte dello stesso obbiettivo perché c’era un’attenzione condivisa”.

Poco dopo parte un nuovo progetto di attività motoria per persone con disagio mentale, si collabora con il CSM-Centro di Salute Mentale)e le ASL-Azienda Sanitaria Locale di Tempio, Sassari, Ozieri. Attività sportive incentrate sull’outdoor: escursionismo, vela, canoa, arrampicata. “Scopriamo un mondo pazzesco, diamo un messaggio chiaro a una concezione d’intervento terapeutico e farmacologico che da soli non bastano. Con lo sport medici e pazienti imparano che i cambiamenti ci sono, che la qualità della vita delle persone migliora. Lo sport permette a queste persone di superare difficoltà a volte anche estreme. Immagina una salita con 30% di pendenza, immagina un’arrampicata. L’aspetto più bello è che attraverso lo sport anche i medici riescono a vedere i loro pazienti sotto un’altra luce, la disabilità stessa è vista da un’altra prospettiva e questo consente di osservare le persone rispetto alle proprie abilità e non solo rispetto al deficit. Non si tratta di diversamente abili, si tratta di persone abili sotto altri aspetti. In outdoor i medici riescono a cogliere dinamiche emozionali ed emotive che in altri contesti trascurano. Osservano e trovano occasione per intervenire. Lo sport palestra di vita, ancora una volta. L’emozione più grande arriva un giorno in cui il dott. Pittalis, referente medico del progetto, ci dice che le cure farmacologiche si sono drasticamente ridotte e i TSO annullati”. 

Arriva il 2006 e Emanuela decide di ritrovare il suo amore per il basket. Nasce “Io Può”, un’associazione sportiva votata all’inclusione che assume presto la forma di una squadra composta da persone diversamente abili. Un’esperienza unica in Italia. La sua unicità sta nel fatto che la squadra aderisce a un campionato “normale”: “Open Uisp”, insieme ad altre squadre di amatori. Ci si allena per uno scopo, che è quello di giocare la partita nel fine settimana. Il confronto qui è chiaro, ci si confronta con la normalità. Ce lo spiega meglio la voce di Emanuela: “Lo sport diventa la chiave per l’integrazione, si gioca spalla a spalla e in campo si diventa uguali, si ha la possibilità di condividere una passione. I ragazzi di “Io Può” non sopportano la troppa benevolenza quando gli avversari non difendono. A questo proposito ricordo un aneddoto. Una volta un arbitro capì che i nostri avversari ci lasciavano giocare senza contrastarci e così incitò la squadra di casa a giocare “davvero”. Fino a quel momento tutti si annoiavano in campo, ma ad un certo punto la partita cambiò, divenne uno scontro alla pari, perdemmo ma finì che ci divertimmo e non mancò l’agonismo, quello sano, quello vero.

Nel 2013 Uisp nazionale chiede a Emanuela di iniziare un lungo percorso di cooperazione internazionale. Partire per Beirut, in Libano, e lavorare alla formazione degli operatori lì presenti: insegnanti e educatori che si occupano di bambini, disabilità e rifugiati. Emanuela arriva e si dedica alla formazione, prova a portare l’approccio sperimentato in anni di cura e tutela alla disabilità attraverso lo sport, ancora una volta attinge dall’esperienza maturata nell'Uisp per cercare di migliorare la qualità della vita delle persone. Lavora nelle scuole, nei campi profughi, negli ospedali psichiatrici. “La prima volta andai con Alessandro Riccio della squadra di calcio “Como Cheria”, una squadra composta da soggetti psichiatrici. Mi serviva una spalla per completare l’approccio, con lui avevo già condiviso l’esperienza del CSM. Un giorno in un ospedale armeno conobbi un ex capitano di circa quarant’anni. Mi raccontò che durante una guerra, in seguito a un esplosione, morirono tutti i suoi uomini. Lui si risvegliò solo dopo cinque anni, sul letto di un ospedale psichiatrico. Quando arriviamo noi si trova in una condizione di salute molto precaria, ma proviamo comunque a fargli fare un po’ di sport. Come dal nulla, a un certo punto prende la parola e ci dice che si è risvegliato. Aveva perso tutto, famiglia, figli. La segregazione e l’emarginazione erano le uniche possibilità concesse, l’ospedale l’unico posto in grado di accoglierlo, la società no. Era un ciclista, fece il Tour de France prima della guerra. Grazie a noi il suo corpo e la sua mente si risvegliarono. Da quel momento anche lui iniziò a sperare che lo sport diventasse uno strumento fondamentale per accompagnare i percorsi di riabilitazione”.

Lo abbiamo detto in apertura all’articolo, la chiacchierata con Emanuela è stata lunga e carica di spunti profondi, una passeggiata in pieno sole in un posto che sa di emozioni belle e di umanità preziosa. Ci salutiamo con un’ultima riflessione, vogliamo sapere cosa ne pensa lei di questa rubrica, se pensa che il titolo “Capitane coraggiose” sia la scelta giusta.

”Trovo che capitane coraggiose sia un titolo perfetto. Ci vuole coraggio ad inventarsi dei ruoli professionali per svolgere dei servizi che la società spesso non offre. La società non è in grado di plasmarsi intorno a certi bisogni e l’Uisp fa proprio questo. C’è voluto tanto coraggio per inventare servizi che la scuola, i servizi sociali, la società, loro malgrado ignorano. La Uisp ha avuto il merito di credere in noi, di valorizzarci, di trovare in noi le braccia e le gambe per dare spinta a un percorso che rientra nella sua mission: lo sport come strumento d’inclusione. Quello che ho potuto imparare in Uisp lo devo soprattutto a Maria Pina. Il concetto stesso di Uisp  che ho tradotto sulla mie pelle viene da lei, è lei che ha dato una svolta alla mission territoriale di Sassari. E’ lei che ci ha dato coraggio". (articolo a cura di Pasquale Posadinu - Ufficio Stampa Uisp Sassari)

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