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Dalla Rete Fare alcune storie di sport che promuove accoglienza

Per celebrare la Giornata mondiale del rifugiato, la rete FARE ha composto idealmente una squadra formata da calciatori e calciatrici rifugiati

 

In occasione del 20 giugno, Giornata mondiale del rifugiato, la Rete FARE-Football against racism in Europe ha composto idealmente una squadra formata da calciatori e calciatrici rifugiati (la Fare 2019 Refugee XI) che giocano ad alti livelli nei paesi di accoglienza. La pubblichiamo in questo articolo di Raffaella Chiodo Karpinsky, dell'esecutivo della Rete Fare e nelle Politiche internazionali, cooperazione, interculturalità Uisp.

In una società italiana ed europea sempre più tristemente smemorata e arcigna, dove pare prevalere nell'opinione pubblica un atteggiamento di respingimento della solidarietà e dell'accoglienza e perfino della diffamazione e criminalizzazione delle ong e dei volontari che si prodigano per salvare vite umane, arrivano voci e storie  per provare a ricordare a tutti  la vera realtà delle cose. Quella realtà legata alla vita in carne e ossa delle persone che nei secoli sono migrate da un lato all'altro del pianeta Terra alla ricerca di un possibile futuro. Sono prima di tutto persone che, per fuggire da un conflitto o una condizione sociale, umana e politica impossibile, sono approdate dopo tante peripezie, in paesi che a volte le hanno sapute accogliere, ed altre ancora attendono che ciò accada.

Qui ricordiamo alcune storie che grazie allo sport hanno avuto un risvolto di inclusione e accoglienza nelle società dovo queste persone sono giunte nel loro processo di migrazione. Migrare per sognare, per sperare. Per celebrare questa giornata dedicata ai rifugiati, la rete FARE ha composto idealmente una squadra formata da calciatori e calciatrici rifugiati (la Fare 2019 Refugee XI) che giocano ad alti livelli nei paesi di accoglienza. In attesa di vedere la magia dei Mondiali Antirazzisti che si svolgeranno a Riace dal 5 al 7 luglio, raccogliendo ragazze e ragazzi da tutta Italia e da diversi paesi d'Europa per parlare di accoglienza e lotta al razzismo attraverso il linguaggio universale dello sport (calcio, basket, pallavolo, rugby), ecco le brevi biografie dei componenti della squadra ideale dei rifugiati proposta dalla rete FARE. Poche righe per conoscere, attraverso le loro storie, l'importante contributo che danno al calcio e al contempo evidenziare il ruolo che il calcio può svolgere nell'abbattere le barriere. Tutti i giocatori e le giocatrici elencati sono rifugiati, o figli di rifugiati, che hanno superato circostanze inimmaginabili per eccellere come calciatori. Eccoli:

Steven Mandanda, Marsiglia, Francia
Vincitore della Coppa del Mondo, Mandanda e la sua famiglia sono stati costretti a lasciare Kinshasa nell'ex Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, durante il regno di Mobutu Sese Seko, e sono migrati a Liegi in Belgio.

Victor Moses, Chelsea, Nigeria
Mosè è cresciuto a Kaduna, in Nigeria. Suo padre e sua madre sono stati aggrediti a casa e uccisi quando nel 2002 in quel paese ci furono disordini e violenza. Ebbe questa drammatica notizia mentre giocava a calcio in strada, prima di essere mandato in Inghilterra dove poi è stato accolto da genitori adottivi a Londra.

Siad Haji, San Jose Earthquakes, USA
Haji si è trasferito dal Kenya negli Stati Uniti con la sua famiglia nel 2004. I suoi genitori si erano originariamente trasferiti in Kenya per sfuggire alla violenza nella loro nativa Somalia, prima di trasferirsi nuovamente in una comunità di rifugiati nel New Hampshire.

Khalida Popal, Afghanistan
Figura chiave per il calcio femminile in Afghanistan, Popal è stata capitano della nazionale femminile dell'Afghanistan, ma alla fine è stata costretta a fuggire dal suo paese d'origine perché per le donne non c'erano condizioni di sicurezza per giocare a calcio. Si è trasferita in Danimarca come rifugiata e ha fondato la Girl Power Organization, che lavora per motivare e responsabilizzare le donne delle minoranze in tutta Europa.

Shabnam Mobarez, Aalborg, Afghanistan
Nata in Afghanistan, Mobarez è fuggita dalla guerra per trasferirsi in Danimarca nel 2003. Qui ha iniziato a giocare a calcio in strada, prima di essere inserita in una squadra locale. Ora è la capitana della squadra femminile dell'Afghanistan. Sia lei che Khalida sono state determinanti nel denunciare gli abusi sessuali nella FA afgana, uno scandalo che ha portato alla messa al bando dell'ex presidente della federazione afgana da parte della FIFA.

Elizabeta Ejupi, Charlton Athletic, Albania
La famiglia di Ejupi è fuggita dal Kosovo a Londra per sfuggire alla guerra quando aveva tre anni. E' entrarta nella Charlton's Center of Excellence, dopo diverse peripezie per giocare per la squadra nazionale dell'Albania. "Ci sono stati massacri, uccisioni. Siamo scappati per sopravvivere ", ha detto.

Luka Modric, Real Madrid, Croazia
Da bambino Modrić fu costretto a fuggire dalla sua città natale, Zara, nell'ex Jugoslavia. La sua famiglia ha vissuto in centri di accoglienza durante la guerra nell'ex Jugoslavia nei primi anni '90. Nel 2018 ha vinto il Pallone d'oro, un premio assegnato al miglior giocatore del mondo, dopo aver guidato la Croazia fino alla finale dei Mondiali.

Fatmire Alushi, Germania
Alushi è una rifugiata costretta a trasferirsi con la sua famiglia dall'ex Jugoslavia attraverso l'Europa fino alla Renania-Vestfalia in Germania. Ha fatto il suo debutto per la nazionale femminile della Germania a 17 anni ed è diventata una delle star del paese. "Se vuoi capire me e la mia vita, devi immergerti nella storia dell'ex Jugoslavia", scrive nella sua autobiografia, Mein Tor in Leben - Vom Flüchtling zur Weltmeisterin.

Awer Mabil, FC Midtjylland, Danimarca
Un giocatore con una storia davvero speciale. Mabil è nato in un campo profughi a Kakuma, in Kenya, dopo che i suoi genitori sono fuggiti dalla guerra civile del Sudan. "Abbiamo costruito una capanna di fango - ha detto Mabil - probabilmente la dimensione di una camera da letto di una casa normale nel mondo occidentale. Ci vivevamo in quattro. Ricevavamo  cibo dalle Nazioni Unite una volta al mese". Nel 2006 è stato trasferito in Australia con la sua famiglia, e ha superato il persistente razzismo e altre sfide per diventare un calciatore australiano per la nazionale, segnando al suo debutto per il paese l'anno scorso.

Ode Fulutudilu, CF Malaga, Sud Africa
È diventata la prima donna sudafricana a firmare un contratto con un club di punta in Spagna a Malaga a gennaio. Fulutudilu aveva solo tre anni quando la sua famiglia fu costretta a fuggire dalla situazione di conflitto del suo paese, la Repubblica Democratica del Congo, verso per l'Angola, prima di spostarsi successivamente più a sud a Città del Capo, in Sudafrica, a causa delle tensioni della guerra civilen anche in Angola.

Nadia Nadim, Parigi Saint-Germain, Danimarca
Nadim ha lasciato il suo paese, l'Afghanistan, da bambina dopo che suo padre, un generale dell'esercito afghano, fu assassinato dai talebani. Insieme a sua madre e alle sue sorelle, Nadim è fuggita dal paese usando passaporti falsi, finendo in un centro per rifugiati in Danimarca. Là ha sviluppato le sue abilità calcistiche ed è entrata nella nazionale danese. "C'erano molti ragazzi di diverse aree ... arabi, iracheni, bosniaci, somali, nessuno poteva parlare la propria lingua e nessuno parlava l'inglese, quindi l'unico modo per comunicare era il gioco". Così racconta Nadim parlando dei suoi primi tempi in Danimarca. (di Raffaella Chiodo Karpinsky)

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