Nazionale

Diario di un testimone della lotta nel deserto

Smara, 25/10/2015

Abbiamo in Italia esperienza di alluvioni e calamità naturali, ma anche per noi è difficile immaginare come la pioggia nel deserto possa provocare danni come quelli di cui siamo testimoni nei campi profughi saharawi a Tindouf in Algeria. Qui 200.000 persone da 40 anni vivono in esilio dalle loro case a seguito dell'invasione e occupazione marocchina del Sahara occidentale, in dispregio delle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Ha piovuto dal 16 al 24 ottobre, come mai è successo in questi 40 anni di esilio nel deserto. Le case costruite con mattoni di fango sono impregnate d'acqua o diroccate, l'acqua ristagna nei centri abitati, le strade di collegamento sono interrotte o di difficile transito, nel comune di Farsia un bambino è morto cadendo in una pozza d'acqua che nascondeva sotto la superficie una fossa biologica. I danni non sono della stessa gravità in tutte le cinque regioni dei campi, ma acqua potabile, pane, abitazioni e ordine pubblico sono le emergenze ovunque. Il governatore di Smara, Hadda Hmaim, ci racconta delle misure che il comitato istituito dalle autorità locali ha preso per tutelare la popolazione, dalla logistica all'ordine pubblico. Le priorità sono le tende, il pane, l'acqua, i medicinali, l'evacuazione in aree più sicure delle famiglie in attesa dell'arrivo degli aiuti delle istituzioni internazionali, delle Ong e delle associazioni umanitarie. Ad ora sono presenti la Mezzaluna Rossa e la Protezione Civile algerina.

Qui a Smara sono 3.200 le famiglie, circa 15.000 anime, che sono state evacuate sulla collina per proteggerle dall'impeto dei wadi, fiumi torrenziali del deserto normalmente secchi, che diventano forze di distruzione quando alimentate da piogge improvvise e intense. Nelle strade devastate dall'alluvione i bambini continuano a giocare scalzi a pallone, la gente sorride quando ti incontra e ti ringrazia di essere lì con loro. Le nostre modeste presenze alimentano speranze di non essere abbandonati. Ispezioniamo tutte le nove scuole della wilaya, più o meno gravemente danneggiate, di cui due irrecuperabili e chiuse per pericolo di crollo. La "Casa dello sport" ha resistito, dobbiamo solo ripristinare il tetto.
La famiglia di Mohamed è una di quelle sfollate. Mohamed ci ospita in una tenda di fortuna e racconta che non si rade, non fa la doccia, non cambia vestiti da otto giorni. Ha dormito in furgone mentre la famiglia, sette persone, tra cui la moglie incinta, dormiva in tenda. La sua casa è parzialmente ma gravemente danneggiata e il pericolo di crollo consiglia prudenza. Nelle case confinanti dei vicini i muri di fango intrisi d'acqua si trapassano con un dito. In una casa sventurata si vede la cucina con ancora la pentola sul fornello. A dispetto delle condizioni, però, è ancora presente la speranza. L'orto familiare di sussistenza di Mohamed di circa 100 metri quadri, ridotto a 4, è il simbolo di un popolo che resiste alle avversità della natura e alle ingiustizie degli uomini.

El Ayun, 25/10/2015

Visitiamo nel pomeriggio la wilaya di El Ayun per verificare e valutare le condizioni della casa dello sport e del laboratorio di ceramica costruiti con il contributo di fondi italiani. Lungo la strada lo stesso panorama di Smara: case demolite dalla pioggia e terre intrise d'acqua. Ai posti di blocco i militari ci accolgono come sempre con cortesia e col sorriso, a dispetto della difficile condizione.
Lungo la strada si sono formate numerose lagune anche di 50 metri di diametro, lungo cui numerose famiglie hanno organizzato una gita al mare e diversi adolescenti fanno il bagno. A 20 metri dalla casa dello sport c'è una pozza d'acqua di grandi dimensioni, il terreno tra la piscina artificiale e gli spogliatoi è pieno di fango, come il campo di calcio spartano in sabbia, mentre è praticabile e intatto il pavimento in cemento dell'impianto sportivo. Gli edifici adibiti a spogliatoi e uffici sono impregnati di acqua nelle pareti vicine al tetto.

Ispezioniamo tutte le otto scuole chiuse per pericolo di crollo, di cui almeno una irrecuperabile. La scuola e museo nazionale di ceramica saharawi è in migliori condizioni, ma piove all'interno. Dauria, la direttrice, ci accoglie con il sorriso e ci mostra con orgoglio ceramiche, ciondoli, piatti, servizi da tè, mortai e pastelli, ciotole per il latte, contenitori decorati con motivi tradizionali.
Ci riceve il governatore di El Ayun e ci informa che le attività scolastiche sono sospese per i danni agli edifici, che sono a rischio di crollo quando il sole li asciugherà, le medicine sono poche con il rischio di epidemie per le pozze d'acqua stagnanti, concomitanti con la stagione delle mosche. Mancano le tende. L'edificio del Comune parzialmente crollato è inagibile. Il morale tra la popolazione è alto e la solidarietà attiva, chi ha la tenda ospita chi è senza. Gli aiuti dall'Algeria stanno contenendo la situazione. Neppure le eccezionali avverse condizioni di emergenza hanno piegato l'orgoglio del popolo saharawi, ma la situazione appare catastrofica anche qui dove i danni sono minori. Domani vedremo il Ministro della cooperazione a Rabuni e sapremo di più di quello che i nostri occhi hanno visto in questo primo giorno.

Rabuni 26/10/2015
Lungo la strada che porta alla capitale amministrativa dei campi profughi incontriamo i soliti allagamenti d'acqua di questi giorni, delle dimensioni di un piccolo lago. Nei recinti degli animali abbandonati alle periferie della città spuntano manti d'erba di un verde pastello irreale in contrasto con il grigio deserto di pietre e di fango. Il ministro della cooperazione, Brahim Muktar, ci racconta che dalle prime valutazioni previsionali sono 11.441 le case e le tende inutilizzabili e circa 60.000 le persone sfollate, pari a circa il 20% della popolazione dei campi. In tutte e cinque le regioni sono danneggiati circa il 70% degli edifici pubblici, ospedali, scuole, municipi, caserme.
Nella regione di Dakla i danni sono maggiori che altrove, circa il 50% delle abitazioni sono inutilizzabili e il 50% degli animali da allevamento, capre e cammelli, sono morti. La regione liberata di Tifarti è irraggiungibile via terra, i camion degli aiuti sono fermi nel fango. Cibo, coperte e tende, purtroppo inadeguate alle esigenze delle famiglie saharawi, composte da circa 5-6 membri, sono assicurate dalle missioni delle Nazioni Unite con trasporti via aria, con aerei ed elicotteri. I primi aiuti sono stati garantiti dall'Algeria. La risposta per ora è inadeguata alle dimensioni della catastrofe. Le priorità nell'immediato sono, nell'ordine, cibo e acqua, tende, medicine.
Il Polisario (Fronte di Liberazione di Saguiat - Al - Hamra e Rio de Oro) e il popolo saharawi resistono con coraggio e il sorriso sulle labbra, come da 40 anni, ma le difficoltà di questi giorni non possono che aumentare se la comunità internazionale, gli stati e la società civile dei paesi del mondo non intervengono con più celerità. Intanto dopo una giornata di sole, la prima dopo nove giorni di diluvio, ha ripreso a piovere.

Dakhla 27/10/2015
Lungo la strada asfaltata, oltre la miniera di ferro e la centrale della corrente elettrica, spuntano sulle dune di sabbia tende di fortuna. All'ingresso della città sulla strada di sabbia incontriamo le tende di chi non si è spostato o non ha trovato posto circondate da un terrapieno di sabbia. Macerie di fango informe, di quelle che una volta erano case, sono visibili ovunque. La mezzaluna rossa, la protezione civile e l'esercito saharawi sono al lavoro per rimuovere le macerie. Notiamo un'autobotte dell'Unhcr.
Incontriamo il governatore che ci invita a visitare la wilaya e successivamente a confrontarci sulle esigenze della popolazione. Intraprendiamo a bordo del fuori strada un tour tra i quartieri della città. Il paesaggio è spettrale: non un'abitazione civile è in piedi. Tra i ruderi di fango pascolano libere le capre, giocano i bambini e i vecchi secolari nei tradizionali abiti azzurri presidiano quanto resta. Raggiungiamo la scuola intitolata a Carlo Giuliani, anche qui, nello sperduto deserto a pochi chilometri dalla Mauritania, c'è un pezzo di cuore italiano. Mentre ispezioniamo l'edificio parzialmente crollato e inagibile, ci avvicinano bambine e bambini di circa otto, dieci anni, che ci chiedono quando aprirà la scuola.
Nella biblioteca comunale crollata appaiono tra le macerie libri e quaderni, ne troviamo uno di Goldoni in italiano, ignota donazione di un connazionale. Qualcuno di noi cerca amici e famiglie dei bambini che vengono in Italia d'estate per le vacaciones de paz. Li troviamo al lavoro intenti a costruire caparbiamente mattoni di fango per ricostruire le loro case, ci accolgono con il sorriso e ci invitano a mangiare con loro, a dividere quel poco pane che hanno. Quando risaliamo sul fuoristrada, nessuno di noi parla. La parola è muta, possiamo solo affidarci alle immagini. Mando un sms in Italia per rompere l'assedio del dolore.
Ci portano sulle belle e famose dune di sabbia di Dakhla, ai piedi delle quali si è formato un lago immenso dove i bambini fanno il bagno. Ci torna il sorriso. Ci conducono a mangiare in una tenda. Anche nelle difficoltà i saharawi continuano a preoccuparsi del benessere dell'ospite. Ci riceve il governatore e ci comunica che è stato ripristinato l'uso dell'acqua, mentre non ci sono forni e il pane viene portato tutti i giorni da Tinduf. Altri alimenti sono portati dagli aiuti governativi e dalla società civile algerina perché sono morti molti animali, le cui carcasse sono state portate lontano e bruciate per evitare il rischio del diffondersi di epidemie. Non ci sono né morti né feriti per merito della tempestiva evacuazione delle persone, il problema principale sono le abitazioni, non ci sono tende per tutti, ma le famiglie si ospitano tra loro.

Il governatore ha le idee chiare: prima le tende per la popolazione, poi scuole e ospedali, poi ripulire le macerie e ricostruire le case, ma si deve agire rapidamente per mantenere la fiducia della gente. Gli aiuti internazionali istituzionali vanno ad Acnur, che intervengono nella prima emergenza con cibo, medicinali e tende e dopo per ospedali, scuole, municipi, abitazioni. Chiede con garbo e dignità di intervenire in Italia per reperire aiuti diretti e non lasciarli soli. Torniamo con un macigno verso Smara, dove alloggiamo, dobbiamo resistere anche noi come i saharawi e non arrenderci alla disperazione che è entrata dai nostri occhi e nelle nostre anime.

 

 

Tifariti 04/11/2015

Dopo Dakhla ci siamo riuniti tra noi, abbiamo telefonato alle associazioni emiliano-romagnole del tavolo saharawi regionale, incontrato i referenti locali del Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli per condividere informazioni e avere consigli. Abbiamo sentito anche le autorità locali per avere il permesso di effettuare una carovana con scorta a Tifariti e portare aiuti alimentari alla popolazione residente. Tifariti è una delle zone dove i saharawi sono liberi e non oppressi come nei territori occupati dal Marocco o esuli come nei campi profughi in Algeria.
Giorgio, Mohamed e Ivan hanno predisposto uno striscione con materiali di fortuna (bombolette spray, pennarelli e un lenzuolo) con la scritta in rosso "solidariedad" e i nomi delle sei associazioni che hanno contribuito all'acquisto di quattro tonnellate di riso. Siamo partiti con difficoltà, ma siamo partiti con un carico minimo e stivamento del restante acquisto da portare in successive missioni.
Nelle nove ore di pista desertica che ci separano da Tifariti abbiamo incontrato camion di aiuti piantanti nella sabbia fangosa da giorni, nomadi che portano al pascolo capre o cammelli, i tanti deserti grigi, di pietra nera, di sabbia, di oasi e di verde, arbusti e acacie.
Siamo arrivati nel tardo pomeriggio e in accordo con il sindaco e l'autorità militare locale abbiamo subito iniziato la distribuzione famiglia per famiglia, trattenendo un quintale per la scuola locale. Qui le abitazioni non sono concentrate come nei campi profughi, ma disperse nel territorio. Abbiamo visitato 64 famiglie annotando scrupolosamente nomi e quantità. Solo otto case di mattoni di fango erano ancora in piedi, mentre le restanti 56 erano crollate e inabitabili, le famiglie vivevano tutte nelle tende, bagnate ma ancora agibili. Qui abbiamo avuto l'ennesima lezione di vita. Le donne ci hanno accolto ringraziandoci più che per il cibo per la nostra presenza che testimonia che non sono stati abbandonati dai loro amici nel momento del bisogno, concludendo sempre il discorso con la professione di fede nel ritorno nella terra dei padri oggi occupata.

Abbiamo visitato la scuola in ottime condizioni, dove le lezioni erano già riprese, comprese quelle sportive. La mensa funzionava regolarmente per i 40 bambini presenti, il morale era alto. Il comandante militare ci ha indicato le criticità nell'usura del mezzo che trasporta giornalmente i bambini dalle loro case alla scuola e nella difficoltà di reperire carburante nell'area. Siamo tornati con la volontà di contribuire alla lotta per una giusta causa e la fiducia nella sua realizzazione in questo tempo o in un altro. (di Ivan Lisanti, Consigliere nazionale Uisp)

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