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Sport e Shoah in Italia: l'approfondimento di Sergio Giuntini

Lo storico dello sport propone le storie italiane di alcune vittime di questa peculiare, e non meno drammatica, Shoah

 

La Shoah dello sport, salvo qualche raro contributo, è stata sino ad oggi poco studiata in Italia. Un fenomeno che, con l’emanazione delle leggi razziali fasciste e la nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI), acquisirà anche nel nostro Paese una dimensione oltremodo violenta e aberrante. Qui, pur consapevoli del molto lavoro ancora da fare, tenteremo di riunirne i fili sparsi: o meglio, le storie italiane di alcune vittime di questa peculiare e non meno drammatica Shoah.



1. Nicola Pende e le accademie fasciste d’educazione fisica
Il punto di svolta decisivo, che in periodo fascista trasformò il razzismo coloniale italiano - implicito ed esplicito - in qualcosa di più truce e in una precisa strategia guidata dall’alto, si ebbe con le leggi razziali del 1938. Giurisdizioni che determinarono un deciso “salto di qualità” in direzione, soprattutto, d’un acuto antisemitismo e spostandone l’asse  dai “neri” d’Africa agli ebrei d’Italia e d’Europa. Un processo preparato dal famigerato “Manifesto della razza” del 14 luglio 1938. A ispirare il Manifesto furono dieci “luminari” (Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari,) che  teorizzarono la non appartenenza degli ebrei alla «razza italiana», poiché venivano considerati «l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia» essendo costituita da «elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani». Un documento, quello dei Dieci, successivamente sottoscritto pure da queste altre figure, diverse delle quali svilupperanno delle brillanti carriere anche nell’Italia postfascista: Giorgio Almirante, Pietro Bargellini, Gino Boccasile, Julius Evola, Amintore Fanfani, Luigi Gedda, padre Agostino Gemelli, Giovanni Gentile, Giovannino Guareschi, Telesio Interlandi, Walter Molino, Giovanni Papini, Ardengo Soffici,  padre Pietro Tacchi Venturi, Attilio Vallecchi. Fra i primi firmatari spicca in specie la figura di Nicola Pende: non tanto perché rappresentava allora un’eccellenza della scienza italiana, ma in ragione del fatto che, dall’ottobre 1940, sarebbe stato altresì chiamato a dirigere l’Accademia d’Educazione Fisica al Foro Mussolini. Ovvero un’istituzione che, per le sue caratteristiche, doveva forgiare non solo fisicamente l’”uomo nuovo” del regime, ma catechizzarlo politicamente quasi si trattasse d’una sorta d’appendice delle scuole di mistica fascista. Sulle concezioni che Pende introdusse all’interno dell’Accademia della Farnesina ha scritto Alessio Ponzio: 
Figura centrale della “medicina politica”, che si poneva come obiettivo il miglioramento delle caratteristiche psicofisiche della popolazione italiana, fu Nicola Pende. Il medico pugliese, professore presso l’Università di Roma, era l’esponente più in vista della “medicina costituzionalista” fondata sull’idea che esistesse una stretta correlazione tra costituzione anatomofisiologica e psicologia. […] Osservare  costantemente gli individui, monitorarne la corporatura e modificare l’ambiente in cui vivevano, l’attività fisica e l’alimentazione, nel caso in cui fossero riscontrate anomalie, era l’unico modo per prevenire le malattie e migliorare l’intera stirpe. Ogni individuo, in sostanza, riceveva un proprio patrimonio ereditario, ma esso poteva essere modificato dagli agenti esterni. In questo modo nessuno, sano o malato che fosse, sarebbe stato “sprecato”.
L’Accademia farnesiniana fu dunque uno dei presidi fondamentali attraverso cui veicolare questa politica eugenetica di miglioramento della razza; e conseguentemente non stupisce come essa si prodigò nell’applicazione delle leggi razziali del novembre 1938 espungendo dal proprio seno ogni nocivo “corpo estraneo”. In proposito, sempre Ponzio, ha  osservato: 
Non ci sono dubbi che la Gil abbia espulso dall’Istituto del Foro Mussolini gli allievi non ariani sin dal 1938, come dimostrarono chiaramente alcune discussioni avvenute nel Parlamento italiano tra la fine del 1949 e l’inizio del 1950 relative alla realizzazione di alcuni corsi speciali per permettere l’assegnazione del diploma a tutti coloro che non avevano potuto sostenere l’esame finale perché partiti per la guerra o perché allontanati dall’Istituto del Foro per motivi razziali".
E un’identica pulizia razziale venne praticata pure presso l’Accademia d’Educazione Fisica femminile di Orvieto. A riprova di ciò, Nicla Poli, aiutante della Comandante Elisa Lombardi, si incaricò d’inviare con la massima premura la seguente comunicazione al padre dell’accademista Grazia Del Bianco: 
Non professando al 1° ottobre 1938 alcuna religione: la vostra figliola Grazia è da ritenersi come appartenente a razza ebraica. Pertanto essa viene dimessa da questa Accademia. Si rimane in attesa di Vostra disposizione per il suo rientro in famiglia.
Del Bianco che, ritornando su questo triste episodio nel luglio 1995, non mancò di sottolineare nuovamente come in tale frangente fu «allontanata per essere colpevole soltanto di appartenere ad una famiglia che aveva tra i suoi membri la madre di religione ebraica»84. Ferite non cicatrizzabili e, in tutto simili, a quelle di molti altri atleti italiani con l’unica colpa d’essere ebrei. 

2. Massimo Della Pergola e Giuliano Gerbi
Tra quanti, a Trieste, pagarono un alto prezzo all’antisemitismo fascista vi fu il giornalista Massimo Della Pergola: un protagonista della storia economica del calcio e dello sport italiani. Rifugiato in Svizzera, Della Pergola vi elaborò un progetto finalizzato a creare un concorso pronostici incentrato sulle partite calcistiche. Nel 1945, al rientro in Italia, riuscì ad ottenere per un biennio la concessione del concorso che aveva escogitato e fondò la “Sport Italia società a responsabilità limitata” (Sisal). Rispetto al lotto, fondato sulla sola fortuna, il suo gioco iniziato il 5 maggio 1946 abbisognava d’una certa dose di conoscenze e competenze calcistiche e, ben presto, acquisì una grande popolarità venendo nel 1948 rilevato dal Coni che ne assunse l’esercizio ribattezzandolo Totocalcio. La vicenda umana di Della Pergola si situa peraltro appieno all’interno dei drammi originati dalla Shoah. Nato nella città giuliana l’11 luglio 1912, iniziò a collaborare a “Il Popolo di Trieste” e a “Il Piccolo” diventando nel 1937 giornalista pubblicista. Della sua estromissione dall’Albo dei giornalisti, a seguito delle leggi razziali, seppe tramite d’un pezzo pubblicato su “Il Popolo di Trieste” sotto il titolo I giudei eliminati dal Circolo della Stampa.
Il Consiglio direttivo del Circolo della Stampa – recitava l’articolo –, riunitosi in seduta straordinaria, ha, fra l’altro, deliberato di considerare come dimissionari dal Circolo stesso gli iscritti giudei. Tali iscritti sono in numero di otto, di cui due professionisti e sei pubblicisti, e precisamente Ida Finzi e Federico Levi, professionisti; Mario Bolaffio, Aldo  Cassuto, Massimo Della Pergola, Edvige Levi Gunalachi, Vito Levi e Alice Pincherle, pubblicisti […]. La decisione del Circolo della Stampa trova la piena approvazione delle Camicie nere del Popolo di Trieste. Era logico che i giudei non dovessero più far parte di quella che noi consideriamo la nostra casa, la nostra famiglia. Il giornalismo fascista è un posto avanzato della Rivoluzione, che dev’essere presidiato da uomini puri di sangue e di cuore.
Espulso anche dall’università, Della Pergola per un certo tempo continuò a scrivere per “Il Lavoro” di Genova e “La  Gazzetta di Venezia”, ma nell’ottobre 1943 per sfuggire ai nazisti dovette nascondersi con la moglie Adelina Coen e il figlio Sergio, grazie alla complicità del suo direttore sanitario, in una clinica psichiatrica di Sesto Fiorentino.  Successivamente fuggiti a Firenze, i tre trovarono riparo presso la casa della professoressa Sarcoli in via Della Colonna. Abitazione in cui restarono fino al 23 dicembre 1943, quando, con l’aiuto della partigiana Silvestri, appartenente al movimento di Giustizia e Libertà, e ad un americano che usava lo pseudonimo di James Wood, fu organizzata la loro fuga verso la Svizzera. Clandestinamente, attraverso il monte Gheridone, entrarono in Canton Ticino il giorno di Natale del  1943. Da lì il figlio e la consorte furono internati nel campo di Tasch, mentre Della Pergola nel campo di lavoro di Pont de la Morge. Qui inventò il suo concorso di pronostici legati al calcio e, dopo esser stato trasferito nel campo profughi di Saint Cergue, riuscì a riunirsi alla famiglia a Tenero. In questa località riannodò il rapporto d’amicizia con due giornalisti, Geo Molo e Fabio Jegher, che presero a farlo collaborare al settimanale “Sport Ticinese”. Della Pergola vi si firmava con successo “Maximus”, e ciò gli valse anche un lavoro alla Radio della Svizzera Italiana. Nel luglio 1945 poté finalmente rientrare in Italia, accasandosi a Milano, e il 3 settembre di quell’anno nasceva la sua Sisal. Intanto, però, la follia  sterminatrice si era portata via suo fratello Steno e numerosi altri parenti ebrei. Enormemente più famoso di Massimo Della Pergola, allorché venne promulgata la legislazione antisemita del 1938, risultava negli ambienti dello sport italiano Giuliano Gerbi. Giornalista al quotidiano del pomeriggio l’“Ambrosiano”, era uno dei più noti speaker sportivi, superato in popolarità solo da Niccolò Carosio, dell’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (Eiar). Specialista soprattutto di  ciclismo nel 1938 fu il radiocronista delle vittorie bartaliane al Tour de France, ma in agguato erano il “Manifesto della razza” e quello che ne sarebbe seguito. Estromesso da ebreo dall’Eiar, riparò in Francia, in Colombia e infine a New York, dove nel 1942 venne assunto alla “Voce dall’America” (Voa) dal direttore della sua Italian section Giorgio Padovano. Forte delle esperienze all’Eiar, Gerbi ne divenne il principale speaker tenendovi una rubrica con lo pseudonimo di Mario Verdi. Rubrica considerata dal fascismo pericolosa quanto i commenti di “Radio Londra”. Insomma una vera spina nel fianco della Rsi, che indusse a rivolgergli questi volgare attacchi: 
L’ex redattore sportivo Giuliano Gerbi, alias Mario Verdi, ha abbandonato le cronache ciclistiche per le radio-concioni retribuite in dollari. Allora sarà come dire: dalla foratura alla foraggiatura, dall’Arena all’avena, dal Giro d’Italia al tiro all’Italia.
Per inciso, tra i giornalisti impiegati a New York dalla Voa fece parte sino al 1952 anche l’italo-americano Mike Bongiorno: prima curandone la Rassegna sportiva, e più tardi collaborando alla rubrica Parla l’ospite basata su interviste a celebri personaggi statunitensi. L’italo-americano Bongiorno che, nella città che gli aveva dato i natali nel 1924, fece ritorno nel febbraio 1945 per sfuggire come Gerbi al fascismo. Studente del ginnasio Alfieri di Torino, Bongiorno si era accostato allo sport partecipando alle gare di atletica leggera promosse dal Gruppo rionale fascista Lucio Bazzani. Diciassettenne vinse una competizione di salto in alto, e questo successo gli fece conoscere il caporedattore sportivo de “La Stampa” Luigi Cavallero che, dopo l’intervista di rito, gli propose di seguire per il giornale gli allenamenti di Juventus e Torino e le corse ciclistiche locali. In seguito passò all’Ufficio corrispondenti del quotidiano: ossia la dettatura al microfono degli articoli ceduti da altri giornali. Una pratica che si rivelò molto utile per la sua futura professione di presentatore. Dopo l’8 settembre 1943 aderì alla Resistenza come staffetta e fu catturato in Val d’Ossola a causa del tradimento d’un delatore. Recluso nel carcere di San Vittore a Milano, ottenne la libertà grazie a uno scambio di detenuti e optò per il rientro in America. Alla Voa nacque l’amicizia con Gerbi e i due collaborarono a lungo, lavorando insieme anche per alcuni delle principali stazioni radiofoniche italo-americane.

3. Giorgio Bassani e Primo Lampronti
Nel suo romanzo più fortunato, Il giardino dei Finzi Contini (1962), Giorgio Bassani dedica diverse pagine al tennis e, metaforicamente, si può dire che l’opera ruoti attorno a due campi tennistici. I simboli d’un prima (delle Leggi razziali) e d’un dopo (le discriminazioni e l’antisemitismo). Larga parte della letteratura in prosa di Bassani racconta appunto questo intreccio indissolubile tra Ferrara, città con una delle maggiori e più antiche presenze ebraiche in Italia, e il suo ebraismo perseguitato; un’endiadi contrappuntata sovente, come detto, dal suo personale amore per il tennis89. Una passione intensamente vissuta, essendo infatti stato Bassani tennista di discreto valore. Questa, una sua autodefinizione: «Ero un ragazzo dotato di un fisico eccellente (giocavo a tennis niente affatto male, ormai posso dirlo senza falsa modestia), e la  vita per me era tutta da scoprire: qualcosa di aperto, di vasto, di invitante». Il poeta Attilio Bertolucci ricordò che «Riuscì persino ad arrivare in seconda categoria, tanto era tenace»; e Gianni Clerici, più tecnicamente, ebbe invece a scriverne così: 
Era cresciuto Giorgio, sui campi del Tennis “Marfisa” di Ferrara. Era stato primo gruppo di terza. Forse ultimo di seconda: niente male […] aveva anche partecipato ai Littoriali, i campionati universitari di allora, prima che le leggi razziali lo respingessero dai rettangoli rossi del “Marfisa”, simile all’io narrante dei Finzi Contini. Giardino, e annesso campo […]. Giocava un buon tennis Giorgio, e ovviamente un tennis che gli somigliava, secondo il vecchio adagio: «Il tennis è l’uomo».
Ripercorriamo quindi brevemente questa biografia tennistica appena tratteggiata da Clerici. Bassani fu, sino al 1938, socio del più esclusivo Tennis club di Ferrara: il Marfisa d’Este, in via Saffi, fondato il 1° marzo 1930. Un circolo i cui campionati sociali di singolo, nel 1933 e ’34, vennero riportati dal regista Michelangelo Antonioni. Tant’è, secondo Gaetano Tumiati, 
sui campi in terra battuta di via Saffi si dava appuntamento la jeunesse doreé. I campioni? Michelangelo Antonioni, un seconda categoria, e quindi Giorgio. Antonioni si fidanzò con mia sorella di un fascino botticelliano: di sicuro fra i modelli di Micòl, bionda com’era.
Al pari d’Antonioni pure Bassani divenne un seconda categoria, vincendo nel 1938 il titolo regionale emiliano: una  vittoria che gli dischiuse le porte delle finali dei Littoriali dello Sport. Fino ad allora si era cimentato soltanto nei Littoriali della Cultura (nel 1936, a Venezia, ottenendo una segnalazione nel concorso di “critica letteraria”; nel 1937, a Napoli, giungendo terzo in “composizione poetica a tema libero”), mentre dal 10 al 19 maggio 1938, abbandonate le  “sudate carte”, a Napoli prese parte a quelli sportivi gareggiando nel torneo di “doppio”. Una delle sue ultime partite ufficiali in periodo fascista. Nel 1939, con le politiche antisemite, gli studenti e i professori ebrei furono allontanati dal liceo pubblico “Ludovico Ariosto” di Ferrara, nel quale Bassani insegnava, e ciò fece sì che per proseguire separatamente gli studi si spostassero nelle aule dell’asilo israelitico di via Rettagliata 79, all’interno del vecchio ghetto ferrarese. Qui Bassani conobbe Primo Lampronti: una fonte d’ispirazione per la sua letteratura, fissato – sembrerebbe – nella figura di Eraldo Deliliers, protagonista col professor Athos Fadigati de Gli occhiali d’oro (1958). Quell’
Eraldo, che nel ’35 aveva vinto il campionato regionale di boxe, categoria allievi, pesi medi, e a parte questo era un bellissimo ragazzo, alto un metro e ottanta e con un volto e un corpo di statua greca, un reuccio locale vero e proprio.
Bassani entrò in contatto con Lampronti - “Deliliers” nella scuola di Via Rettagliata, laddove, riferisce Roberto Cotroneo, egli si fece «promotore di un corso di autodifesa, che mescolava boxe e lotta, tenuto dal pugile ebreo Primo Lampronti». Così nacque un profondo legame dettato dalle contingenze dell’antisemitismo: e sia Bassani che Lampronti, da ebrei e antifascisti, combatterono apertamente il regime finendo entrambi arrestati. Su Bassani, un rapporto della polizia politica risalente al 29 giugno 1943, segnalava quanto segue:
Il movimento in parola che si propone di rovesciare il Fascismo per istituire una nuova forma di governo, presenta la caratteristica di volersi servire di tutti i partiti per attuare il suo programma […]. Nel ferrarese esponenti principali del movimento sono il Dr. Bassani Giorgio, ebreo, originariamente di principi liberali, l’insegnante elementare Costa Alda di idee socialiste.
Lampronti, dopo l’8 settembre 1943, venne posto in arresto dai carabinieri «perché sorpreso a fissare i seguenti manifesti: “Sappiate che la rovina de l’Italia è stato il fascismo e i tedeschi”». Ma che boxeur fu Primo Lampronti? Nato nel 1917 in via Vittoria nei pressi della sinagoga sefardita, Lampronti, che tra i suoi avi annoverava il famoso Isacco Lampronti (1679-1756), autore dei Pachad Jicchak (“Gli insegnamenti di Isacco”), rappresentò fra il 1933 e il 1938 uno dei migliori pesi piuma dilettanti italiani. Figlio di un venditore ambulante, si allenava nella palestra della Viribus Unitis e, durante il suo periodo da pugile, disputò un centinaio d’incontri combattendo anche in Germania e Polonia e affrontando i forti Biagini, Chistolini, Cortonesi (futuro campione d’Europa fra i professionisti), Mangialardo, Montanari. Costretto, da ebreo, a interrompere la sua carriera sportiva e licenziato dall’Amministrazione provinciale, una volta esauritasi anche l’esperienza nella scuola israelitica di Bassani, Lampronti si rifugiò a Roma unendosi alla Resistenza. Rientrato con la Liberazione a Ferrara, fu il primo segretario della sezione del Partito comunista di Borgo San Giorgio.

4. I pugili del ghetto romano
Sempre Ferrara c’introduce a un altro pugile ebreo ma stavolta romano: Settimio Fernando Terracina. La sua “epopea”,  nella città degli estensi, iniziò nel 1937 nel corso d’un confronto dilettantistico perso in finale contro Faraoni con un gesto duramente stigmatizzato dalla stampa di regime: «Si è presentato sul ring con una croce sionista ostentando un razzismo che niente ha a che fare con lo sport fascista». Con l’orgogliosa rivendicazione della propria identità, un anno prima delle leggi razziali, Terracina lanciava un guanto sfida al fascismo. Anticipava il colpo e colpiva prima d’essere colpito. Quella Stella di David se l’era cucita sui pantaloncini all’altezza della coscia sinistra, imitando il grande Max Baer. Il boxeur americano, vincitore di Primo Carnera nell’incontro per il mondiale dei massimi, che aveva sempre ostentato - facendone un punto di forza - il proprio essere ebreo. Nato nel ghetto di Roma, Terracina da dilettante disputò  3 combattimenti, mentre la sua breve carriera professionistica si dipanò negli Stati Uniti. Nel marzo del 1940 lasciò l’Italia, sottraendosi in tal modo alla Shoah, e sotto le cure di Don Hamill a maggio batteva subito Al Tibbits. Presa la cittadinanza di quel Paese, Terracina, il “boxeur con la stella”, tornò a Roma con le armate statunitensi contribuendo alla sua liberazione. Un altro pugilatore ebreo-romano fu Pacifico Di Consiglio, detto “Moretto”, scomparso nel 2007. Di lui - aderente a Giustizia e Libertà - ha scritto Stefania Miccolis: 
Pugile audace (continuò ad allenarsi da solo, anche quando lo buttarono fuori dalla palestra perché ebreo) utilizzava tutti i suoi colpi, tutta la sua prestanza fisica, l’astuzia, l’agilità, la sua impavida tracotanza, l’instancabile resistenza per salvare e proteggere i più deboli. Non si abbassava ai nazisti, li uccideva anche con le sue mani.
Di Consiglio, a quella palestra che poi lo espulse, si era iscritto con l’amico Angelo Di Porto giusto nel 1938 per reagire alle discriminazioni della legislazione razziale. Da autodidatta fece sua la dottrina di Max Nordau, uno dei padri del sionismo, il quale fin dal 1898 aspirava «a creare di nuovo una forza ebraica» poiché «un popolo che vuole liberarsi» deve aiutarsi solo da sé e, dunque, occorreva favorire «la rinascita del giudaismo dei muscoli»100. Al nazifascismo per Di Consiglio bisognava rispondere, non subire passivamente, servendosi del pugilato come scuola di resistenza, di lotta partigiana. Alla vicenda, pugilistica e umana del Di Consiglio, può essere apparentata per alcuni aspetti quella di Lazzaro Anticoli, ebreo romano nato il 7 agosto 1917 da Settimio e Fortunata Efrati e sposato con Emma Di Castro. Pugile dilettante soprannominato “Bucefalo”, Anticoli fu uno dei 57 ebrei fucilati il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine101. Il suo arresto, avvenuto il 23 marzo 1944, si dovette all’ebrea CelesteDi Porto, una delatrice al soldo dei nazisti nonché amante di Vincenzo Antonelli, un membro della sanguinaria banda fascista di Gino Bardi e Guglielmo Pollastrini. Due criminali, resisi celebri con i taglieggiamenti, i furti, le estorsioni, le violenze fisiche. Anticoli finì nella lista dei 57 da sopprimere solo all’ultimo momento in sostituzione di Angelo Di Porto, fratello di Celeste, e prima di morire sui muri della cella 306 di Regina Coeli incise la seguente scritta: «Sono Anticoli Lazzaro, detto Bucefalo, pugilatore. Si non arivedo la famija mia è colpa di quella venduta de Celeste Di Porto. Rivendicatemi». Lazzaro Anticoli, da boxeur tenace quale era, cercò di resistere finché gli restavano energie in corpo: e al momento dell’arresto, quel 23 marzo, mandò K.O. tre dei fascisti incaricati dell’operazione. Infine, da Terracina, Di Consiglio e Anticoli a Leone Efrati, nato a Roma il 23 aprile 1915103. Il più noto dei pugili del Ghetto, figlio di Aronne e Allegra Di Segni, andato sposo a Ester Zarfati. Chiamato “Lelletto”, Efrati nel corso della sua esperienza professionistica sostenne 49 incontri: 28 vinti, 10 persi, 11 pareggiati. I suoi inizi risalivano attorno ai quattordici anni, quando cominciò a frequentare la palestra romana dell’Audace allenato dal maestro Cesare De Sanctis104. Un connubio scioltosi col trasferimento di De Sanctis a Parigi, cosicché Efrati transitò alla sezione pugilistica dell’Associazione sportiva Monti. Sodalizio col quale, superando l’umbro Farfanelli, nel 1935 vinse il titolo italiano dilettanti dei pesi piuma. Da professionista esordì il 14 settembre 1935 con una vittoria su Amleto Alberio, e a questa affermazione seguirono quelle su Grisoni, Giulio Macciocchu, Sem Malvich, Leone Blasi, Edoardo Giaccaglia, Alfredo Magnolfi (due volte campione italiano dei gallo), Pietro Di Paolo (campione d’Italia dilettanti fra i gallo) ecc. Per tre volte incrociò i guantoni con Oberdan “Kid” Romeo (prossimo campione italiano dei leggeri) e Gino Cattaneo (campione italiano ed europeo dei gallo), match conclusi con entrambe con una vittoria, una sconfitta e un pareggio. Viceversa con Mario Gualandri collezionò tre vittorie e un pari, e solo col fortissimo Gino Bondavalli (campione d’Europa di piuma e gallo) dovette arrendersi in due occasioni nel luglio e novembre 1937. Nel  1938 combatté in Francia, sconfiggendo Auguste Carrio, Alf Piette, Henri Barras, Gaston Maton, e a questa trasferta seguì una tourneé americana. Negli Stati Uniti Efrati regolò Eddye Dempsey, Johnny Balmer, Joe Law, Sonny Batson; vinse, perse e pareggiò con Frankie “Kid” Covelli; fece un pari con Pete Lello; e il 29 dicembre 1938, a Chicago, venne battuto ai punti da Leo Radek, detentore del titolo mondiale Nba. Nell’estate del 1939 Abel Lotti, un italo-americano originario di Civitavecchia, in ottimi rapporti con il manager Bobby Gleason e col campione Phil Terranova, gli propose un’altra fitta serie d’incontri, ma Efrati preferì far rientro a Roma per riunirsi alla famiglia. Una decisione che, a causa della nuova legislazione antiebraica, il 19 novembre 1939 gli impose il ritiro dal pugilato. Durante l’occupazione nazista trovò per qualche tempo scampo in un convento e, con una sorta di spavalda incoscienza, fece anche il venditore di souvenir ai soldati tedeschi in libera uscita. Deportato, a seguito del rastrellamento del 16 ottobre 1943, ad Auschwitz-Birkenau col fratello Marco e la sorella Costanza, “Lelletto”, per sopravvivere e svagare i suoi aguzzini, si vide costretto a continuare a boxare pure in quell’inferno. In proposito merita riportare una testimonianza da Alberto Sed. Un ex deportato ebreo, allora compagno di disgrazia di Efrati a Birkenau: 
Noi assistevamo, ma con che spirito vede un incontro di boxe uno che non sa che fine hanno fatto sua madre e sua sorella? […]. I tedeschi davano a chi combatteva un premio, spesso un pezzo di pane. Efrati si faceva onore, ma poi un giorno finì tutto. C’era anche suo fratello al campo e lui tornando nel block seppe che era stato picchiato a sangue da alcuni kapò. Chi è stato? Chi te le ha date? Si rifece e loro dopo aver preso tutte ste’ botte avvertirono un soldato tedesco. Qualche ora dopo lo  tramortirono, lo ridussero a un moribondo. Ogni sera le SS, davanti al block, ti strattonavano per vedere se stavi in piedi: chi cadeva per terra non aveva scampo e lui non riusciva neanche ad alzarsi. Fu così che “Lelletto” finì nei forni crematori.
Forse però non furono quelle percosse, quei colpi colti “sotto la cintura” ricevuti dalle SS, a portare alla morte Efrati. La sua fine, secondo Laura Fontana (responsabile per l’Italia del Memorial de la Shoah di Parigi), potrebbe essere avvenuta durante una delle “marce della morte” dei primi mesi del 1945, quando, prossimi al tracollo, i nazisti decisero il trasferimento di migliaia di deportati dai campi dell’Europa orientale verso occidente106. In un suo studio, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati in Italia (1943-’45), Liliana Picciotto Fargion ne indica al contrario il decesso a Mauthausen il 14 aprile 1945 assieme al fratello Marco. Comunque sia, Efrati cedette solo per gli stenti non per un “fuori  combattimento”. Ai suoi boia non concesse mai una simile soddisfazione. E con la vita in palio, battendosi per un tozzo di pane, ad Auschwitz s’inventò pugile il medesimo Alberto Sed, che ricorderà così quegli incontri: 
Avevo quindici anni e lo sport era tutto. Quando finii in una miniera di carbone, a Furstengrube, combattei pure io per fame. Ci davano una mezza pagnotta. E un giorno affrontai un professionista ungherese perché non si trovava nessuno con il coraggio di farlo. Era più forte, più grande, in tre riprese presi un sacco di botte anche se ne diedi pure io parecchie. Allora meritai pure una fetta di salame.
Storie di “sommersi e salvati”, di chi ce la fece e chi no. Di pugili del Ghetto e nei lager.

5. Aldo Finzi: il fascista delle Fosse Ardeatine
Tra le vittime delle Fosse Ardeatine compare pure un personaggio controverso, di difficile decifrazione, che aveva ricoperto incarichi d’assoluto rilevo nella nomenklatura del fascismo: Aldo Finzi. Nato a Legnago il 20 aprile 1891,  Finzi, uno dei ras col fratello Gino dello squadrismo provinciale polesano, vantava in gioventù degli eccellenti trascorsi da sportsman: terzo nel campionato italiano di motociclismo della classe oltre 500 cc nel 1912 e secondo nella 500 nel 1913. Volontario della Grande Guerra, il 9 agosto 1918 con la squadriglia “Serenissima” volò su Vienna con Gabriele D’Annunzio e, iscrittosi ai Fasci mussoliniani di combattimento nel 1920, fu tra i maggiori organizzatori della fatidica Marcia su Roma. Membro del Gran consiglio del fascismo, vice-commissario per l’Aeronautica dal 1923, Luogotenente generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), il 31 ottobre 1922 entrò nel primo governo Mussolini in qualità di sottosegretario agli Interni. Un ruolo d’importanza nevralgica nell’esecutivo (ministro agli interni era il Duce medesimo), a cui, fra le tante altre cariche ricoperte, aggiunse pure la presidenza del Coni. Non bastasse, in quel torno d’anni diede inoltre l’assalto alla proprietà de “La Gazzetta dello Sport”. Una conquista alla quale cooperò attivamente il fratello Gino, l’ultimo Finzi nato a Badia Polesine nel 1893. Gino Finzi, soprannominato “Gino dalle bande nere”, si era posto in luce in Polesine guidando le squadre fasciste sin dall’aprile 1920 e, cessata la fase più violenta della “rivoluzione” mussoliniana, si trasformò in un arrembante uomo d’affari dai metodi piuttosto disinvolti. In questo tipo di operazioni rientrò l’acquisto di un cospicuo pacchetto azionario, assai probabilmente quale prestanome del potente fratello, de “La Gazzetta dello Sport”. Così, il 12 aprile 1923, Aldo Finzi assunse la presidenza della “rosea”  mantenendola a tutto l’ottobre 1924. Nel luglio 1923 costituì un suo comitato di direzione composto da Gino Finzi, Emilio Colombo, Adolfo Cotronei, Lando Ferretti, Gian Antonio De Verzoni, Armando Cougnet, Pietro Petroselli, Ermete Della Guardia; e ufficialmente, come compenso, si accontentava di 35 azioni, d’un modesto stipendio e qualche rimborso spese. La sfolgorante carriera politico-affaristica di Aldo Finzi, coinvolto in svariati scandali nazionali (sulla
legalizzazione delle case da gioco, sulla ricerca petrolifera in Italia, ecc.), s’interruppe bruscamente con l’uccisione di Giacomo Matteotti della quale fu considerato uno degli organizzatori. E se sulle sue effettive responsabilità nell’ordire tale delitto sono sempre rimasti dei dubbi, egli rappresentò invece, sicuramente, uno dei principali “capri espiatori” offerti da Mussolini all’opinione pubblica per superare la grave crisi in cui era precipitato il suo governo. Aldo Finzi s’immolò, suo malgrado, alla causa fascista, subendone sul piano personale dei pesanti rovesci. Nei suoi confronti l’opposizione attuò delle violente  ampagne di stampa che interessarono pure le modalità con cui si era impossessato de “La Gazzetta dello Sport”, le sue forme di gestione e i vantaggi economici che ne aveva tratto. Accuse che portarono il Finzi a querelare “L’Avanti!” e “l’Unità”, e ad un processo, conclusosi a Milano l’8 novembre 1924, che diede in buona parte ragione ai due giornali della sinistra. Uscito politicamente di scena, Aldo Finzi vi ritornò nel 1938 riscoprendo in qualche maniera le proprie origini familiari ebraiche. I suoi nonni paterni, Abramo e Rosina, erano infatti israeliti ed educarono suo padre Emanuele nella religione ebraica. Questi poi se ne allontanò da agnostico e, sposandosi con la cattolica praticante Rosina Roggia, lasciò che i suoi figli venissero battezzati ed educati nel cattolicesimo. Per l’esattezza Aldo Finzi fu battezzato con rito cattolico il 30 giugno 1891, ed una successiva sentenza del 30 aprile 1896, emessa dalla corte d’appello di Venezia in ordine ad una causa tra Emanuele Finzi e la Università israelitica di Rovigo, confermò la non appartenenza di Aldo e Gino alla comunità ebraica. Detto ciò, con l’approvazione delle leggi razziali Aldo Finzi lasciò più volte trasparire pubblicamente la sua contrarietà a quei provvedimenti; anche se, come è stato sottolineato da Domizia Carafoli e Gustavo Bocchini Padiglione, su un «vero e proprio riavvicinamento di Finzi alla religione ebraica» non ci siano «prove». Né esistono elementi attendibili circa una presunta collaborazione di Aldo Finzi con la Resistenza. Priva di fondamento risulta l’ipotesi che possa aver fatto parte del Partito democratico del lavoro, prestando aiuto ai partigiani del gruppo De Rubeis. In un’esistenza tanto contrad dittoria le uniche certezze su cui convergere sono pertanto date dal fatto che, divenuto estremamente pericoloso da depositario di molti segreti sul delitto Matteotti e per le sue critiche all’antisemitismo, il fascismo pensò bene d’espellerlo dal Partito nel 1941, d’inviarlo nel 1942-‘43 al confino a Vasto, alle Tremiti, a Termoli, a Lanciano e a Giano, ed infine, il 28 febbraio 1944, di consentire al suo arresto da parte dei tedeschi. Aldo Finzi, portando con sé molte verità nascoste, lasciò la vita alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944. Se perché, in fondo ancora un po’ ebreo o fascista pentito, non lo si saprà mai.

6. Dirigenti, allenatori e calciatori nella Shoah
E il calcio? Anche questo sport venne risucchiato nella “soluzione finale”. A calciatori, allenatori, dirigenti, se ebrei, non fu risparmiato nulla. Subirono discriminazioni, umiliazioni, deportazione e morte come tutti gli altri. Questo Olocausto è stato ben narrato in due volumi usciti negli ultimi anni. Da un lato da Lo scudetto ad Auschwitz di Matteo Marani, in cui si racconta la vita dell’allenatore ebreo-ungherese Arpad Weisz, deceduto appunto ad Auschwitz il 31 gennaio 1945, dopo che sua moglie Elena e i due figli Roberto e Anna vi erano già stati soppressi il 5 ottobre 1942113. Dall’altro da  L’allenatore errante. Storia dell’uomo che fece vincere cinque scudetti al grande Torino di Leoncarlo Settimelli, un volume che ricostruisce la biografia di Ernest Erbstein, anch’egli un ebreo d’Ungheria, allenatore in Italia di Bari, Cagliari, Lucchese e Torino, costretto ad allontanarsi dal nostro Paese per le leggi razziali e, sfuggito miracolosamente alla Shoah, perito nella tragedia di Superga del 4 maggio 1949114. Due testi narrativi, ma con un impianto storico adeguatamente documentato, cui si rinvia per l’efficacia del loro messaggio in specie rivolto alle giovani generazioni. Due altre figure da rivalutare sono quelle di Istvan Toth e Geza Kertesz. Magiari entrambi, ma non ebrei, come Weisz e Erbstein in Italia si affermarono da allenatori. Il primo, nato a Budapest il 28 luglio 1891, ebbe una brillante carriera  anche da attaccante del Ferencvaros e della nazionale ungherese (19 presenze tra il 1909 e il 1926), e come mister allenò Triestina (1930-’31), Ambrosiana-Inter (1931-’32) e nuovamente la Triestina nel 1934-’36 e nel 1938-’39. Il secondo, di Budapest dove nacque il 21 novembre 1894, giocò nel Ferencvaros (1920-’23), nello Spezia (1925-’26) e nella Carrarese (1926-’27), allenando poi a lungo nei nostri campionati e sedendo sulle panchine della Salernitana (1929-’31 e 1941), del Catanzaro (1931-’33), del Catania (1933-‘36 e 1941-’42), del Taranto (1936-‘38), dell’Atalanta (1938-’39) e della Lazio (1939-’40). Due maestri di calcio danubiano legati altresì da un altro, tragico, elemento comune: la data della morte, avvenuta a Budapest il 6 febbraio 1945. Fucilati lo stesso giorno in quanto appartenenti a una rete di patrioti ungheresi, che si oppose al nazismo e al governo collaborazionista organizzando il salvataggio di oltre un centinaio tra partigiani e cittadini ebrei. In particolare Kertesz, lo “Schindler” del pallone ungherese, che conosceva bene il tedesco, in un’occasione si travestì da soldato della Wermacht per favorire la fuga degli ebrei dal Ghetto della capitale magiara115. E da ultimo non si può non ritornare sulla figura di Raffaele Jaffe che, nato ad Asti l’11 ottobre 1877, fu il fondatore, il 17 dicembre 1909, del Football Club Casale, suo presidente sino al 1912 e consigliere federale della Figc. Laureato in scienze naturali si dedicò all’insegnamento presso l’Istituto Tecnico Leardi e successivamente divenne preside del magistrale Giovanni Lanza di Casale Monferrato. Ebreo, sposò una donna cattolica insegnante di musica, e nel 1937 si convertì alla nuova religione. Un atto che non lo mise al riparo dall’antisemitismo che nella provincia alessandrina dilagò col fascismo “repubblichino”. “Il Popolo di Alessandria”, organo del locale Partito fascista repubblicano (Pfr), scriveva il 7 ottobre 1943: «Basta con gli ebrei! Si sequestrino i loro averi. Si brucino le loro tane, le sinagoghe. Si caccino dal paese, subito! Essi non hanno mai avuto pietà per nessuno. E noi non ne avremo per loro» Una dichiarazione d’odio sfociata, tra il 13 e il 14 dicembre 1944, nella “Notte dei cristalli” della città di Alessandria. Per vendicare la morte d’un ufficiale della Rsi, i fascisti condussero un pogrom contro gli ebrei devastando la sinagoga di Via Milano e lasciando sul registro della comunità questa scritta ingiuriosa: «A ricordo di un bubbone estirpato da squadristi e ufficiali di Alessandria». A Casale nell’opera d’attacco alla comunità ebraica si distinse una squadra repubblichina detta della “Balilla nera”. A bordo di questa auto, seguiti da un altro milite su Motoguzzi, i membri del commissariato della polizia fascista compivano le loro retate di “giudei”. Due in particolare: una nel febbraio e l’altra nell’aprile 1944. Jaffe venne arrestato proprio il 2 febbraio di quell’anno, rinchiuso nelle carceri casalesi e quindi trasferito al campo di Fossoli. Da Verona, il 2 agosto 1944, partì il suo convoglio per Auschwitz dove venne ucciso il 6 agosto 1944118. Era diventato cattolico, ma per i suoi carnefici restava solo un “sottouomo”: un ebreo.

7. Conclusioni
Dire che da queste storie si possono trarre moniti per il futuro sembra troppo scontato. L’immutabilità della natura umana e la sua coazione a ripetere inducono al pessimismo. La memoria tuttavia non si può cancellare. E lo sport, che gioca molto del suo fascino sul filo della memoria, della leggenda, non può sottrarsi al dovere di ricordare anche questo. Un altro lato oscuro della Shoah, che sarebbe oltraggioso rimuovere in nome di quello sport che sempre, nella vulgata retorica, affratella, unisce, universalizza.

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