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Sport in carcere: a Bollate, Milano, si sperimenta il tennis

Anche il tennis può diventare un'occasione di crescita, oltre che di svago e distrazione, per chi vive rinchiuso tra alte mura

 

Difficile immaginare che un carcere possa essere un luogo dove il tennis recita un ruolo importante. Invece, in quello di Bollate, si è trasformato in un mezzo che lega i detenuti al mondo esterno e aiuta la vita all'interno. Davide ha 45 anni, è milanese di buona famiglia, aveva un bel mestiere di grafico pubblicitario, insegnava nelle scuole. Tra i detenuti, è lui l’anima del progetto tennis. Tennis, proprio così: un’opportunità rara per i “soci”, come li chiama Stefano, che invece ha 49 anni, una vita non facile alle spalle e dovrà rimanere qui ancora un po’. “Ma non ho mai fatto del male a nessuno”, ci tiene a chiarire; perché qui, anche tra i “soci”, ci sono persone che hanno lasciato dietro di sé scie di sangue e di dolore, distrutto vite e famiglie. “Non ero un granché con la racchetta ma ho imparato – dice Stefano – e mi sono appassionato. Il tennis mi piace perché butti fuori tutto quello che tieni dentro, anche le tensioni, ti aiuta ad accettare meglio la tua situazione”. A Bollate il tennis non spopola come il calcio, tanto celebre che hanno organizzato pure un corso per allenatori e, finché c’è stata la possibilità, si era anche formata una squadra ufficiale iscritta ai campionati, la Bollatese. Ma è uno sport trasversale.

L’amministrazione illuminata di questa casa di reclusione è nota per essere una tra quelle – e sono poche – che rispettano per intero il dettato costituzionale. Un condannato, per quanto spaventoso possa essere ciò che ha commesso, non è un reato ambulante ma una persona, che deve pagare ed essere recuperata: trattare con umanità, offrire un mestiere e un’ idea di riscatto è anche un esercizio di protezione sociale, perché abbatte la recidiva. È un discorso complesso, che cozza contro il legittimo dolore di chi, là fuori, ha perso tutto come vittima di vicende tragiche; chi parla di rieducazione, generalmente, viene travolto dal populismo penale del «buttiamo via la chiave», di chi vorrebbe reintrodurre la pena di morte, dei discorsi alla «mio figlio è disoccupato e lo Stato tutela i criminali». E sembrerebbe, soprattutto, una questione aliena al serve&volley. Invece no: perché il tennis in carcere è un collante, aiuta ad applicare la cultura del rispetto, tiene in moto mente e corpo. “Per me il tennis è stato un miracolo – racconta Davide - A Torino, dove avevo chiesto di essere trasferito per studiare scienze politiche, noi detenuti potevamo praticare solo il goback, una specie di minitennis con palette di legno, dentro una palestra. La mia ultima racchetta era una Head del 1998 ed ero rimasto indietro su tutto, non avevo neanche l’antivibrazioni, non sapevo cosa fosse il bilanciamento del telaio... dopo un bel pezzo che ero qui, a Bollate, mi sono affacciato alla finestra e ho visto due ragazzi che giocavano a tennis. Mi si è aperto un mondo”.

Un mondo che la Uisp ha reso possibile grazie a Renata Ferraroni, responsabile delle attività in carcere per la Lombardia, con l’appoggio della dirigenza del carcere. Che vuol dire tutto, perché in altri istituti il tennis non viene praticato: altre amministrazioni lo ritengono pericoloso, sia per l’attrezzo necessario al gioco, sia perché le palline potrebbero essere utilizzate per “passare” ai detenuti sostanze stupefacenti o altre merci vietate. Qui tutti i tennisti sono tesserati e Davide non smette di pensare a iniziative, a nuovi progetti; anche se talora glieli bocciano, come lo studio grafico di un logo per l’abbigliamento dei “soci”. Lui incassa e si fa venire un’altra idea: “Mi piacerebbe frequentare un corso maestri a settembre”, e ti mostra il foglio tenuto con cura maniacale nella cartellina, forse un retaggio del suo mestiere del prima. È il programma di una giornata di formazione Uisp con il coach Giacomo Paleni, ma iniziare a chiedere autorizzazioni con mesi di anticipo può non bastare: bisogna che qualcuno prenda in carico la richiesta, che il programma finisca sulla scrivania del magistrato, che ritorni coi timbri, le firme, superi gli ostacoli di ferie, assenze, sviste e rallentamenti e, forse, il corso si farà. (Fonte: tennisitaliano.it)

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