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Atlete e discriminazioni salariali, dal tennis al calcio

Le differenze economiche e di carriera sempre al centro di polemiche, soprattutto negli stati Uniti. L'articolo di Valeria Frigerio

Il tema delle differenze economiche e di carriera che continuano a penalizzare le atlete rispetto agli uomini è come un fiume carsico: viene denunciato, come accaduto in occasione del Convegno Uisp al Senato dello scorso 24 febbraio, “O capitana, mia capitana", scompare dalla ribalta mediatica per un po’ per poi ricomparire in modi e con accenti forse per noi inattesi.

Questa volta tocca alle atlete USA: nelle ultime settimane due fatti emblematici su questo argomento. A fine marzo Ray Moore, direttore del torneo di tennis Indian Wells, (440 mila spettatori nei 10 giorni di partite) si è dovuto precipitosamente dimettere: aveva sostenuto che il tennis femminile “tira avanti sulle spalle degli uomini” innescando la polemica sui guadagni delle donne. Cinquant’anni dopo le battaglie di Billie Jean King per l'eguaglianza di trattamento delle donne nel tennis non poteva certo passarla liscia: Serena Williams, n.1 del tennis mondiale, ha bocciato come “offensive” e sessiste le sue dichiarazioni e Raymond Moore, dopo un goffo tentativo di scusarsi, “Ho fatto commenti di cattivo gusto e sono davvero dispiaciuto”, ha dovuto dimettersi.

La polemica sui guadagni è continuata: Novak Djokovic, ‘corrispettivo’ di Serena Williams nella classifica maschile, non molla. Moore sarà stato anche politicamente scorretto ma “chi attira più attenzione, spettatori e vende più biglietti”, quindi i tennisti maschi, deve guadagnare di più.
Quanto a casa nostra, un anno fa Sara Errani così si è espressa in proposito: "Polemiche inutili. L'unica differenza tra noi è fisica, ma forniamo lo stesso tipo di spettacolo. Sì, è giusto guadagnare gli stessi soldi. E anziché allungare a 5 set le partite femminili come chiede qualcuno, io accorcerei a tre quelle maschili. Salvo qualche eccezione, la partite troppo lunghe sono noiose".

Altro sport, stessa querelle: le calciatrici della nazionale Usa, vincitrice di 3 Campionati mondiali (1991, 1999, 2015) denunciano la disparità economica alla Commissione federale per le Pari opportunità: in pratica portano la la Federcalcio statunitense in tribunale. Portavoce è Hope Solo portiere simbolo della Nazionale, figlia di un veterano della guerra del Vietnam di origine italiana, che porta argomenti concreti: le calciatrici quando vincono sono pagate meno degli uomini quando perdono.
Il conto della diseguaglianza economica è presto fatto: la Nazionale femminile di calcio nordamericana ha vinto tre Mondiali e quattro ori olimpici, ma i colleghi maschi prendono da 5 mila dollari per la sconfitta in amichevole a 17.625 per vincere un match mentre alle donne spettano 1.350 dollari per una vittoria e nemmeno un centesimo in caso di ko. 
Il calcio femminile, negli Usa, è una realtà affermata e le calciatrici hanno le idee chiare: chiedono di partecipare agli introiti che derivano dalla vendita dei diritti televisivi e dei biglietti per gli stadi.

Anche sul calcio un salto in casa nostra: Carolina Morace, nella videointervista che ha rilasciato quale contributo per ‘Oh capitana, mia capitana’ ha affermato che in Italia si fatica ancora a riconoscere l’importanza sociale ed economica dello sport femminile e Milena Bertolini, allenatrice dell’Acf Brescia, ultima squadra italiana femminile ad uscire dai quarti di Champions, usa metafore ‘alimentari’: “Vorrei che il coraggio che hanno negli Usa, dove il soccer è il primo sport femminile, ci fosse anche in Italia, dove invece vedo molto fumo e poco arrosto. Qui siamo davvero trattate come l’ultima ruota del carro, ci concedono le briciole”. Coraggio ragazze, al lavoro! (Valeria Frigerio, Uisp pari opportunità)

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