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Vincere per forza, ma vogliamo davvero figli campioni e infelici?!

Vincere per forza. Si chiama Andre Agassi, l’ex fuoriclasse che ha rivelato nel suo libro "Open” il difficile rapporto con il padre-aguzzino. Ma si legge: il-bambino-tuo-vicino-di-casa. Proprio lui, che fino a qualche anno fa correva dietro ad una palla in cortile o in strada. Oggi quel bambino non c’è più e la colpa è dei genitori che “Vogliono un figlio fenomeno”. Per questo lo stressano e lo torturano, “disposti a tutto pur di avere un figlio campione, tra risse a bordo campo e arbitri insultati”. Questa è la tesi dell’articolo di Emilio Marrese pubblicato giovedì 24 ottobre sulle pagine di Repubblica, ben tre. Con interviste, dati e considerazioni che la Uisp sottoscrive. Non da oggi, da sempre: lo sport sia un gioco per i bambini e un piacere (di più: un diritto) per tutti. (per leggere l’articolo clicca qui).


La conclusione dell’articolo di Marrese è diretta ai genitori, ma non solo: attenzione che a “a dieci anni il gioco smetta di essere un gioco” e diventi una “guerra per vincere”. Parte da questo concetto il commento della Uisp. Parla Vincenzo Manco, presidente nazionale dell'associazione di sportpertutti: "L'articolo di Marrese pone un tema essenzialmente culturale legato all'idea di sport di cui oggi si fanno interpreti le famiglie verso i propri figli. È un punto di criticità posto da sempre dalla Uisp. Perché le responsabilità sull'educazione motoria e sportiva dei propri figli non sono da imputare solo ai genitori, ma alla cultura collettiva non solo del sistema sportivo, bensì del sistema paese. Studi e indagini neanche tanto recenti indicano quanto ormai, la famosa piramide che teneva legate la promozione sportiva e l'alta prestazione si sia ormai rotta da anni".

"Scelte scellerate - prosegue Manco - hanno portato alla esasperazione del professionismo, spingendo alla precocizzazione disciplinare anche le fasce di età più basse della popolazione, bambini e preadolescenti. Occorre invece privilegiare il gioco, l'approccio armonico, l'alfabetizzazione dei movimenti verso uno stato di benessere psicofisico che permetta al bambino di crescere, di diventare uomo, attraverso lo sport e non per lo sport finalizzato a se stesso. La precocizzazione porta a tenere le percentuali del drop out molto alte. La sostenibilità del proprio corpo come il primo degli ambienti che deve trovare un proprio equilibrio è fondamentale per la crescita del bambino. Non va quindi sottoposto allo stress di allenamenti estenuanti, ma messo nelle condizioni, fino ad una certa età, di potersi cimentare in un rapporto multidisciplinare creativo. I bambini, i ragazzi, vanno lasciati giocare nei cortili, occorre riappropriarsi degli spazi pubblici per poter agire il proprio corpo liberamente. La nuova cultura del movimento passa sempre di più dalla necessità di garantire un benessere psicofisico soggettivo e di conseguenza sociale. Questo ci dice da tempo la cultura europea soprattutto".

L’articolo di Repubblica fotografa un fenomeno che forse è sempre esistito ma di questi tempi ha assunto dimensioni di massa: “Piccoli atleti costretti a prestazioni stressanti da padri e madri che pensano di essere gli allenatori, spingendoli a dare sempre di più e mandandoli spesso oltre il loro limite”. Lo stress da prestazione: un fenomeno sociale, non solo ristretto al perimetro familiare. L’aspetto della famiglia è quello da cui prende spunto Massimo Davi, responsabile formazione nazionale Uisp, che commenta l’articolo partendo dal ruolo dell’allenatore, prima che da quello del genitore: “Siamo in presenza di gravi forzature e degenerazioni. Voglio però sottolineare che l’ideale per un allenatore non deve essere quello di avere una squadra di orfani, come ebbe a dire tempo fa un ex portiere di serie A poi allenatore di squadre giovanili. Lui voleva sottolineare, in modo paradossale, che è meglio non avere a che fare con i genitori. Ma è sbagliato pensarla così”.
“Il problema esiste e va affrontato, non rimosso – prosegue Davi – un vero allenatore deve imparare a fare il pedagogista anche con loro, con i genitori. Deve saper spiegare che l’importante non è vincere e nemmeno avere un figlio fenomeno. Se invece allena la squadra con l’unico obiettivo di vincere, ogni sconfitta sarà un dramma. Per questo penso che il compito di un allenatore sia quello di insegnare a giocare. La sconfitta è una possibilità. Occorre allenare anche a questo, soprattutto se si ha a che fare con i giovani”.

 

Tratto da Uispress, periodico della Uisp Nazionale

 

 

 

 

 

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