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Sugli schermi del Festival di Venezia si fa strada la realtà

Alcuni film in concorso raccontano le difficoltà dei nostri tempi, alle prese con migrazioni ed evoluzioni sociali. C’è spazio anche per lo sport

 

L’80^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia sta per decretare i vincitori del Leone d’oro, la rassegna si chiuderà infatti sabato 9 settembre. Quella che si sta per concludere è stata un’edizione sicuramente diversa dal solito, a causa dello sciopero degli attori di Hollywood che ha portato allo slittamento di alcune uscite e alla mancata promozione di altre. Il parterre di ospiti è stato cambiato, l’ordine dei film riprogrammato, l’apertura doveva essere con Challengers di Luca Guadagnino che è sostituito da Comandante, diretto da Edoardo De Angelis, con Pierfrancesco Favino. Il film di chiusura sarà, invece, La sociedad de la nieve di J.A. Bayona, fuori Concorso, che riporta al cinema quanto avvenuto nel 1972 con il volo 571 delle Forze aeree dell’Uruguay con a bordo una squadra di rugby diretta in Cile, precipitato su un ghiacciaio nel cuore delle Ande.

Dalle proiezioni emergono alcuni filoni di racconto che ci riportano all’attualità, ai problemi della contemporaneità, dalle migrazioni alla questione LGBTQ+: sono firmati da donne molti dei film più coraggiosi in Concorso. Agniezka Holland presenta “The Green Border” (GUARDA IL TRAILER), storia di rifugiati mediorientali e di abusi al confine tra Polonia e Bielorussia, il confine verde: chilometri infiniti di alberi, di natura, di animali che separano l’Europa (e la Nato) dalla zona di influenza russa,e che oggi sono uno dei luoghi d’accesso possibile per chi cerca di entrare in Europa «clandestinamente» ma viene invece stritolato dalle politiche europee e da quelle dei singoli governi. Da una parte la Polonia cattolica e razzista – come tanti altri paesi europei – dall’altra la Bielorussia di Lukashenko che ha illuso chi arrivava da zone devastate dai conflitti quali Siria e Afghanistan di un territorio safe-gate Giunti lì in volo potevano facilmente attraversare il confine che li avrebbe portati in Europa, fortezza e al tempo stesso luogo fragile di contraddizioni sempre più profonde.

La polacca Malgorzata Szumowska è la regista, con Michal Englert, di “Woman of” (GUARDA IL TRAILER), protagonista una persona trans, altro soggetto tabù in Polonia. Mentre in “Holly” la fiamminga Fien Troch, già Premio per la regia proprio a Orizzonti, trapassa dal realismo al fantastico per esplorare il disagio di una adolescente. Ava DuVernay, statunitense, invece è la prima afroamericana in concorso nella storia di Venezia. Il suo film, Origin, (GUARDA IL TRAILER) trae ispirazione dal libro “Caste: The origins of our discontents” di Isabel Wilkerson, esplorando le radici del male del razzismo e del sistema delle caste che lo alimenta.“A una regista di colore come me si fanno quasi sempre solo domande sul razzismo – ha detto DuVernay in conferenza stampa – mentre ai registi bianchi si chiede delle loro opere. Ma ora il festival ha aperto le porte e spero rimarranno tali  l’arte deve immaginare il futuro, sfidando le strutture dominanti del potere, e può aiutare a immaginare un nuovo mondo dove ci sia la giustizia sociale”.

Quest’anno il festival ha aperto le porte anche alla scottante questione della partecipazione di persone LGBTQ+ alle competizioni sportive. “Life is not a competition, but I’m winning” è il film di  Julia Fuhr Mann (GUARDA IL TRAILER) che guarda allo sport agonistico, quello olimpico soprattutto, e a come viene vissuto dalle atlete trans: si tratta di un ambiente che fa ancora fatica ad aggiornarsi e ad aprirsi, infatti, le persone transgender a oggi sono escluse dalle competizioni, ma il film vuole provare a sovvertire gli stereotipi che dominano le discipline olimpiche. È una storia millenaria fondata sull’esclusione, quella dello sport, come messo in luce dal lungometraggio d’esordio della regista tedesca presentato alla Settimana della critica.

Il film ripercorre le storie di due atlete, le runner trans Amanda Reiter e Annet Negesa, in un mix di documenti, finzione e filmati d’archivio, alla ricerca del potenziale queer-femminista nelle discipline olimpiche, in particolare nella corsa, partendo dall’intreccio tra storia e attualità, tra documenti d’epoca e urgenze contemporanee. Le immagini delle riprese risalenti alle performance olimpiche di Lina Radke (prima vincitrice in assoluto della medaglia d’oro negli 800 metri piani nel 1928 e pioniera di questa distanza che però fu subito bandita alle donne per essere poi riaperta solo nel 1960) e di Stella Walsh (campionessa olimpica dei 100 metri piani a Los Angeles nel 1932 che solo nel 1980 si scoprì essere nata con caratteristiche genetiche di entrambi i sessi) mostrano la forza e la determinazione di quelle atlete, il loro sudore come la loro fatica, i loro gesti ginnici alla ricerca del primato davvero sembrano senza tempo e fuoriescono dallo schermo per venirci incontro e invaderci dentro. Il film mette al centro l’aspirazione a condividere un mondo non sorretto più da categorie di genere stereotipate. “La copertura mediatica – afferma la regista – sta diventando sempre più grande e così tante persone guardano la “Coppa del mondo di calcio femminile”, ma queste organizzazioni sono ancora gestite da uomini. Forse anche questo cambierà in futuro. Molti documentari si concentrano sul dolore, e per me sarebbe molto strano continuare su questa strada. Non voglio scoraggiare le persone o farle piangere di nuovo. Volevo dimostrare che siamo tutti pronti per iniziare qualcosa di nuovo”. 

Di persone in cerca di una nuova vita parla anche Io Capitano il film in concorso di Matteo Garrone (GUARDA IL TRAILER) che può essere anche definito un romanzo di formazione al presente. Protagonisti sono coloro che percorrono la rotta del Mediterraneo, e partono dai loro paesi in cerca di un’altra vita da qualche parte nell’Europa per finire molto spesso in fondo al mare. E se sopravvivono subiscono comunque brutalità di ogni tipo, botte, torture, ricatti, richieste di soldi, stupri, diventano schiavi, sono venduti, uccisi. È quanto la cronaca riporta ogni giorno, persino col rischio di produrre una sorta di «assuefazione», quasi che tutto questo sia il risultato ineluttabile della nostra epoca, e tale riduzione a numeri o statistiche in cui si perdono i singoli vissuti delle persone sembra persino d’aiuto alla politica più reazionaria dei respingimenti e della paura. Garrone nel confrontarsi con questa materia fa una scelta contraria a quella del film «a tema» mettendo al centro della sua storia due adolescenti che non sono «vittime», non hanno cioè quella «giustificazione» per andare via da guerre, persecuzioni, economie traballanti ma seguono l’impulso incosciente di avventura e curiosità verso il mondo della loro età.

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