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Sicilia

“Giocare per diritto” nelle carceri: così i bambini hanno incontrato i loro papà


ENNA. Come si fa a rendere le carceri dei modelli educativi? Oggi in Italia sono 61.000 le persone private della libertà personale e ogni anno sono 100.000 sempre in Italia le persone che le frequentano.

Essere genitori a prescindere dallo stato di detenzione ed essere un figlio accudito dai genitori a prescindere dallo stato di detenzione del genitore è l’obiettivo formativo ed educativo del progetto “Giocare per diritto”, di Uisp Sicilia, che ha messo in rete 42 partner e coinvolto 9 istituti penitenziari siciliani in 30 mesi di attività. Un progetto sostenuto dall’impresa sociale Con I Bambini attraverso il bando “Un passo avanti”, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa e minorile.

“Dovremmo rimettere il carcere dentro la società, perchè le carceri sono nelle città, eppure, rimangono un altro terreno come se fossero una nazione diversa“, dichiara Santino Cannavò, presidente di Unione Italiana Sport per Tutti (Uisp) di Messina e coordinatore del progetto per le carceri di Messina e Barcellona Pozzo di Gotto.



Il progetto ha portato il terzo settore dentro gli Istituti penitenziari e ha agito dentro e fuori le strutture di Palermo, Giarre, Catania, Enna, Trapani, Ragusa, Agrigento, Messina e Barcellona Pozzo di Gotto, creando o ristrutturando degli spazi-gioco già esistenti nelle aree di accoglienza degli Istituti. Attraverso il gioco e il sostegno alla genitorialità del progetto, è stata proposta una maniera diversa dell’essere cittadini creando un contatto tra i detenuti, le loro famiglie e i loro figli.

“Molte volte si spezza questo contatto fra genitore-detenuto e figlio. A volte per vergogna nel dire che il padre è in carcere, altre volte la compagna o moglie del detenuto non dice niente sulla situazione del padre, ai figli più piccoli. Poi, il rapporto genitori-figli in carcere viene gestito da quelle poche ore di colloquio, dentro una stanza, insieme a tanti altri“, spiega Cannavò.

L’esperienza di Enna

Fondamentale nel progetto è stato il supporto degli psicologici, che, come nel caso della Casa Circondariale “Luigi Bodenza” di Enna, da quanto racconta la direttrice Gabriella Di Franco: “Ha risolto dei dilemmi. Il più grande è dire ai bambini dove si trovano quando arrivano per incontrare i loro papà. Capiranno cosa mi sta accadendo? Mi giudicheranno?”, si chiedono i genitori.

Alcuni genitori riescono a risolvere questi dilemmi, in base all’età dei loro bambini, con delle favole. Altri rinunciano ai colloqui in presenza preferendo da remoto pur di non dire ai bimbi dove si trovano. Usando bugie a fin di bene, come il trovarsi sul posto di lavoro, per evitare tristezza e delusione. Un giorno verrà tutto fuori – continua la direttrice Di Franco -, gli psicologi hanno sostenuto i detenuti dicendo che bisogna accompagnare i ragazzini alla comprensione, dicendo che si può sbagliare, ma poi si torna a vivere“.

“Si punta su una seconda chance, sul ricucire. Noi vogliamo recuperare. Abbiamo capito che bisogna dare una nuova vita, ridando fiducia a queste persone e ricucendo famiglie che prima non erano in sintonia. Alcune non avevano voglia di esserlo. Quello che servirebbe è strutturare nelle carceri questo tipo di modello. Aumentando l’autostima migliorano tante cose intorno a queste persone: la relazione di coppia, quella con gli altri, si abbassa l’aggressività, ti proponi per un lavoro, capisci qual è il tuo talento”.

Nella vita essere aiutati ha un valore aggiunto. L’isolamento o pensare che le cose capitino soltanto a te non è un pensiero corretto. Secondo la direttrice Di Franco: “Gli esseri umani in qualunque vicenda o pezzo di vita si ritrovino in fondo si assomigliano. Le cose capitano a tutti, la vita ha una sua giustizia. I dolori e le felicità capitano a tutti. Per i bambini venire al carcere ha avuto un senso di bellezza, di poetico, perché c’erano persone affezionate a loro, che le conoscevano. Dei genitori con i quali potevano giocare”.

“Un genitore ha detto: ‘Bellissimo, ho visto le mie figlie in momenti differenti. Ho potuto toccarle in maniera diversa o abbracciarle con un’intensità tale che nei momenti di colloquio non avevo‘. Si capisce come la vita sia fatta sia di benessere fisico, ma soprattutto mentale. Dei bambini, alla fine del progetto chiedevano di tornare l’indomani a giocare con il loro papà. Abbiamo vissuto dei momenti particolarmente emozionanti, di vicinanza e di grande umanità“.

L’esperienza di Barcellona Pozzo di Gotto

“Alcune persone che arrivano in carcere non sanno di avere dei diritti e dei doveri, con un’immagine di Stato che è quella che hanno conosciuto fuori. Arrivavamo a essere 40-50 persone in un campo sportivall’interno del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”, racconta ancora Santino Cannavò. “Abbiamo giocato tutti insieme sgombrando i ruoli: bambini dai 3 ai 14 anni, i loro papà detenuti e le compagne o mogli. Utilizzando gli strumenti sportivi come elementi aggregativi. In questo stare insieme si è dato spazio ai sentimenti più profondi di genitori e bambini: Il mio domani come sarà? Cosa avranno i miei figli? Perché mio padre è in carcere? Io vorrei mio padre”.

“Facevamo colazione insieme. Il sabato mattina era un appuntamento fisso con il progetto, per quattro ore, tra gioco e colazione. Ci vuole una legislazione più attenta a queste tematiche, sennò questo abbandono, quest’uscita dalla vita civile rimarrà sempre tale. Uscire dal carcere dopo 10 anni e non sapere cosa fare, succede a chi ha tagliato i ponti con la famiglia, se ce l’ha, una famiglia. Tutti noi dovremmo avere un rapporto maggiore con il carcere. Sembreranno sennò dei territori abbandonati. Se il carcere è rieducazione, dobbiamo mettere in atto ambiti di rieducazione, sennò rimarrà soltanto pena“.

L’evento conclusivo “Fate il nostro gioco!”

Il progetto si è concluso con “Fate il nostro gioco!”. Un’esperienza immersiva e di realtà virtuale all’Urban Center di Enna, tra oculus, mappe interattive e proiezioni video, dove è stato raccontato il prima e il dopo gli interventi del progetto negli Istituti Penitenziari. Un modo insolito per le persone di entrare dentro un carcere. Un luogo per lo più inaccessibile. Un modo per invitarle a giocare, con degli strumenti multimediali, con un progetto che sul diritto al gioco ha costruito due anni di attività e investimenti.

Racconta così Vito Foderà, che ha realizzato la “Virtual Reality Experience” del progetto, ideata e curata da Laura Bonasera, responsabile comunicazione e stampa del progetto“Abbiamo fatto delle riprese con una telecamera, che riprende a 360 gradi, e serve per fare dei video fruibili nel visore. Abbiamo ripreso il prima e dopo gli interventi nelle aree gioco degli Istituti penitenziari. Ma anche voci e testimonianze dei detenuti che raccontano il carcere e il progetto. Permettendo così al pubblico che indossava il visore di trovarsi virtualmente dentro gli Istituti”.

“Abbiamo inserito delle immagini nei totem in modo che toccando degli schermi si potessero trasformare in sfere, forme e curve. Chi ha indossato il visore ha visto la trasformazione degli spazi degli Istituti penitenziari. Sono contenuti che non si finisce di esplorare, perché si osservano in modo sempre diverso. E questo è il modo in cui vogliamo che si vivano le carceri. Con l’esperienza virtuale per dare un messaggio simbolico di valorizzazione e di trasformazione possibile. E abituarci tutti noi a vivere le carceri in modo diverso.

 

 

Evento giocare per diritto 9-10-11 marzo

Evento giocare per diritto 9-10-11 marzo

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