Nazionale

"Biciclette partigiane", il nuovo libro di Sergio Giuntini

La presentazione si terrà a Genova martedì 26 aprile. Nel volume venti storie di ciclismo e Resistenza raccontate dallo storico dello sport

 

"Biciclette partigiane" (Bolis Edizioni, pp. 150) è il nuovo libro di Sergio Giuntini, storico dello sport, che racconta l'indissolubile connubio tra ciclismo e Resistenza. Martedì 26 aprile si terrà a Genova la presentazione del volumea partire dalle 17.30 ai Giardini Luzzati in piazza Rostagno

Il libro propone 20 storie, da Giovanni Pesce, leggendario capo dei Gap milanesi, alle staffette partigiane, dalla partecipazione alle lotte di Liberazione di Alfredo Martini e Luciano Pezzi, che, da direttori sportivi, scriveranno negli anni a venire la storia del ciclismo nazionale, a ciclisti meno noti sopravvissuti alle stragi nazifascisti o ai lager tedeschi. E poi ancora Vito Ortelli e Toni Bevilacqua, Gianni Brera, Cino Moscatelli e tanti altri.

Con gli strumenti dello storico e il passo del narratore, Sergio Giuntini riunisce in Biciclette Partigiane venti storie di ciclismo e Resistenza, alternando vicende di nomi conosciuti – da Luigi Ganna ad Alfredo Martini ad Albert Bourlon – a fatti e figure meno noti della storia della guerra civile su due ruote. 
L'evento sarà trasmesso su Facebook a questo link

 

L'autore ci ha gentilmente messo a disposizione un brano tratto dal libro che pubblichiamo di seguito, un racconto emblematico dello stretto rapporto che unisce la storia della resistenza a quella della bicicletta.

 

GRUPPO COMPATTO A GONZAGA

19 dicembre 1944: un attacco ciclistico nella campagna mantovana

La battaglia di Gonzaga, secondo Luciano Casali e Mario Pacor (Lotte sociali e guerriglia in pianura. La Resistenza a Carpi, Soliera, Novi, Campogalliano, 1979), fu il «fatto d’armi più eclatante della Resistenza in terra mantovana». Un’azione di grande portata, la cui cifra saliente consistette nell’essere stata combattuta in bicicletta.

Le due ruote, come abbiamo visto, facevano parte della guerra del “gappista”, fondata sull’audacia di gruppi ristrettissimi di tre, quattro al massimo componenti, che colpivano improvvisamente il nemico per poi darsi alla fuga a colpi di pedale. A Gonzaga invece coloro che attaccarono i fascisti in bici furono diverse centinaia, le fonti che hanno cercato di calcolarne il numero variano le stime da 150 a 300 unità. Un vero e proprio foltissimo gruppo di “corridori-partigiani” come al Giro d’Italia. Per convergere verso il comune in provincia di Mantova, formazioni Gap (inquadrate nel distaccamento “Aristide” della 65a Brigata “Walter Tabacchi”) e Sap (77a brigata “Fratelli Manfredi”) e la 121a Brigata Garibaldi “Arrigo Luppi” cominciarono a confluire intorno alle otto di sera del 19 dicembre 1944 a Cantonazzo, sul ponte della Fossa a Raso, una località a nord di Carpi. Incolonnatosi ordinatamente il plotone ciclistico procedette silenzioso in fila indiana, unico rumore il fruscio dei raggi, scaglionato in pattuglie distanziate l’una dall’altra da un centinaio di metri. Un lungo cordone in movimento protetto solo dall’oscurità, e in costante apprensione per il pericolo d’essere intercettato dal nemico. Ciò perché, come si lamentarono i comandi, il piano non era stato studiato nei minimi dettagli. Ebbe dei caratteri volontaristici e d’improvvisazione, puntando sull’effetto sorpresa e sul coraggio dei resistenti più che sulla tattica e la strategia.

Per raggiungere Gonzaga, a seconda di dove i partigiani si misero in sella, percorsero dai trenta ai cinquanta chilometri. Già tanti di per se stessi e resi ancor maggiormente faticosi dall’armamento che si portavano appresso. In particolare, per il trasporto di alcune mitragliatrici pesanti utilizzarono quei furgoncini su ruote gommate che nella pianura padana servivano alla raccolta del latte destinato ai caseifici, una sorta di “risciò” spinti a forza di muscoli delle gambe dai “gappisti” più allenati. Nondimeno, alla stregua di ciò che accade in ogni gara che si rispetti, numerose furono pure le forature. Un guaio a cui si rimediò grazie alle tante case di contadini sparse lungo il percorso, che consentirono ai partigiani di sostituire le loro biciclette sgonfie con delle altre sane messe a loro disposizione dai compagni delle campagne.

Gonzaga andava attaccata in forze perché da lì muovevano i rastrellamenti contro la  Resistenza carpigiana e, nella ricostruzione di Santo Peli, l’iniziativa si poneva altresì questi scopi: «distrarre dalla “pianura dei ribelli” le truppe nazifasciste, impartire loro una dura lezione, e contemporaneamente offrire un esempio e uno stimolo alla timida resistenza che, nelle campagne mantovane, era frenata dal timore delle rappresaglie». Insomma l’attacco mirava a intimorire il nemico e a dare una scossa al medesimo movimento partigiano. Doveva infondere nel contempo paura e coraggio e colpire l’immaginazione. Un aspetto quest’ultimo, per certi versi “spettacolare”, a cui quel corteo ciclistico notturno conferiva un alto coefficiente di suggestione.

Giunti a Gonzaga a mezzanotte circa, ai “gap-sappisti” si unirono combattenti del posto e il piano si concentrò su tre obiettivi: la caserma della Gnr, il comando della XIII Brigata nera “Marcello Turchetti” e il campo (“Dulag” 152), attivato nel novembre 1944 in sostituzione di Fossoli, da cui transitavano i prigionieri di guerra. L’operazione per quanto spericolata conseguì in buona parte i fini prefissati: vennero recuperate molte armi, le vittime furono limitate a due, mentre tra i nazifascisti toccarono la cinquantina. Solo la conquista della sede della “Turchetti” fallì.

Nel corso della ritirata i partigiani si scontrarono con degli autocarri nazisti, e alle prime luci dell’alba la colonna ciclistica riuscì a rientrare alle basi senza altre perdite. Per le sue caratteristiche la battaglia di Gonzaga rappresenta un unicum nella storia dei Gap. Ne rovesciò le linee-guida. Spostò l’azione dai centri urbani ai rurali, e puntò sulla quantità anziché sulla qualità. Cose possibili esclusivamente nell’area emiliana, laddove si aveva una concentrazione di reparti partigiani e una collaborazione da parte delle popolazioni civili nettamente superiore a quella esistente nelle altre regioni centro-settentrionali.

L’impegno psico-fisico richiesto a chi combatté a Gonzaga non fu dissimile da quelle richiesto da una prestazione sportiva.