La definizione di "donna" nelle leggi britanniche si basa sul sesso biologico: questo è stato deciso dalla Corte Suprema del Regno Unito lo scorso 16 aprile. Le donne trans sono dunque escluse dalle tutele riservate alle donne dalle leggi antidiscriminatorie britanniche, che saranno indirizzate a favore delle persone a cui è stato assegnato il sesso femminile alla nascita. Questa scelta apre certamente molte riflessioni e problemi, con particolare riferimento alle persone trans.
Le persone transgender sono una minoranza fortemente discriminata e marginalizzata che è spesso privata di visibilità, voce e diritti. Eppure, la rappresentazione mediatica che se ne fa dipinge loro come una minaccia ingombrante, che occupa spazi che non sono loro destinati, che nello sport portano scompiglio, rubano medaglie e risultati. Da questo discorso viene ignorata completamente l’esistenza di uomini trans e/o le persone non binarie AFAB (Assigned Female at Birth), che stando a una logica essenzialista, dovrebbero rientrare nelle tutele delle “donne biologiche”.
Ma gli uomini trans e le persone non binarie a quanto pare non esistono, visto che nessuno si preoccupa della loro collocazione. In questa impostazione binaria di ragionamento, sotto la lente di ingrandimento ci sono ancora una volta le donne. E’ il genere che va tutelato, dove però appena un corpo fuoriesce da una norma ben codificata è da controllare: una donna più forte, dall’aspetto meno convenzionale, con una struttura fisica diversa, diviene sospetta. Come se esistesse un solo modello di donna.
Provo a portare anche il mio personale punto di vista in questa discussione. Non mi sento minacciata dalle persone trans, nemmeno dalle donne trans. Credo, al contrario, che si debba parlare più di diritti, di tutele per tutte le persone, ovvero che “I diritti sono come un raggio di sole: se io mi abbronzo, a te non rubo niente”, come ci ha ricordato Saverio Tommasi, scrittore e attore, nel corso di un recente Pride. Non mi sento minacciata da una donna trans che utilizza il mio bagno o lo spogliatoio della piscina dove vado.
Forse dovremmo ragionare di più di spazi che dovrebbero essere meno costruiti per genere, cercando di mettere in atto azioni per rendere gli spazi più attenti ai corpi delle persone e alle differenze. Se mi sento minacciata nell’utilizzo di uno spogliatoio, comincerei a chiedermi quali spazi attraverso e che tipo di cultura di genere stiamo costruendo. Perché tutti i bagni pubblici non possono semplicemente essere accessibili per tutte le persone e non divisi per genere? E a proposito di discriminazioni e preconcetti culturali, perché i bagni per le donne sono anche i bagni per le persone disabili? E perché il fasciatoio è solo nei bagni femminili?
Il bisogno di “riservatezza” in uno spogliatoio, per esempio, è un tema trasversale: ci sono infinite ragioni per cui una persona prova disagio nello spogliarsi davanti ad altre persone, quindi perché non ragionare su degli spogliatoi misti che assicurino uno spazio di cambio privato?
Tornando allo sport, se vogliamo parlare di discriminazioni mi piacerebbe partire dalla mancanza di tutele e di diritti che coinvolge in particolare lo sport femminile, sulle diseguaglianze e discriminazioni socio-economiche che ancora ci sono. Non dimentichiamo, per esempio, che il professionismo riguarda solo una piccolissima parte del movimento – i club della serie A di calcio – e ho l’impressione che ben poco altro si riuscirà a riconoscere. Nello stesso settore calcio sembra che ci si dimentichi delle calciatrici e dei livelli più bassi, oltre ai tagli economici che l’attuale Governo ha adoperato. Dov’è l’equità?
Lo sport d’élite, in ogni caso, riguarda solo una piccola percentuale di persone. Lo sport di base può permettersi di esplorare orizzonti nuovi con molta più immediatezza: il fine non è il risultato, ma il potenziale di libera espressione identitaria e di aggregazione sociale che l’attività sportiva possiede. Rompiamo gli schemi, usciamo dal binarismo di genere, pensiamo a come costruire spazi sportivi accoglienti.
Lo sport dovrà certamente rivedere le regole se vuole affermare che le competizioni devono essere eque, una equità che non ritroviamo troppo spesso neanche nello stesso genere tra persone cisgender. Ci sono caratteristiche biomeccaniche e fisiche che costituiscono un vero e proprio vantaggio competitivo nella prestazione sportiva, senza dover scomodare le
persone trans o le persone intersex. Lo sport competitivo deve trovare le modalità per accogliere tutte le persone, valorizzando le differenze di ognun*.
Sono queste e tante altre le questioni che come associazioni sportiva ci poniamo, per mettere in atto un cambiamento che produca davvero spazi sportivi ideali. Grazie al percorso del progetto “Differenze in Gioco” in Emilia-Romagna, per esempio, sono state stilate delle Linee Guida per Spazi Sportivi Ideali, con uno sguardo alla sperimentazione di un futuro. Si tratta di un esempio come altri che stiamo sviluppando in Piemonte, Lombardia, Toscana. Proposte per costruire lo sport del futuro, di diritti per tutt3, a misura di persone. (di Manuela Claysset, responsabile Politiche di genere e diritti Uisp nazionale, con il contributo di Chià Rinaldi)