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Sempre in lotta per i diritti: Ciao Mabel Bocchi

Il lungo addio ad una "Donna di Sport" che negli anni '80, al fianco dell'Uisp, contribuì a realizzare la Carta dei Diritti delle donne nello sport

 

Mabèl Bocchi, leggenda della pallacanestro femminile, è morta ieri, a 72 anni, a San Nicola Arcella, in Calabria: una grave malattia l’aveva colpita pochi mesi fa e in poco tempo se l'è portata via. Ha dominato gli anni '70 come più forte cestista del mondo (nel 1975 fu la Federazione Internazionale Basket ad eleggerla miglior giocatrice) e come sportiva impegnata per i diritti delle donne nello sport.

L'Uisp si unisce alle parole del suo club storico: “Ciao Divina Mabel, sarai sempre la stella più splendente nell’universo Geas”. Mabel Bocchi è stata un personaggio poliedrico e rivoluzionario nel mondo sportivo, collaboratrice della Gazzetta dello Sport e del Corriere della Sera e volto noto in tv, anche presentatrice della Domenica Sportiva.

La collaborazione con l'Uisp si concretizzò a metà degli anni '80 con la collaborazione con il Coordinamento Donne Uisp e la realizzazione della Carta dei Diritti delle Donne nello sport (per il prossimo numero di Uispress Valeria Frigeria ci ha promesso un suo articolo che racconta quegli anni). In quel periodo la giornalista Monica Lanfranco curò la pubblicazione del libro "Donne di Sport" (edizioni Arci-Uisp) che, insieme all'introduzione di Gigliola Venturini e alla Carta, conteneva una serie di interviste di giornaliste a pioniere e protagoniste dei diritti delle donne sportive, da Ondina Valla a Novella Calligaris.

Mabel Bocchi fu l'unica che decise di scrivere il capitolo che la riguardava in prima persona, una sorta di confessione e autointervista. Pubblichiamo integralmente il suo intervento contenuto nel libro "Donne di Sport" (ed. Arci-Uisp 1987), insieme alle foto che accompagnavano il testo:

 “Più vado avanti negli anni e più mi convinco che la vita è davvero meravigliosa. Meravigliosa perché pazza e assolutamente imprevedibile. Meravigliosa perché la nota frase di Rossella O'Hara «Domani è un altro giorno» è la verità più vera che io conosca. E la mia vita è stata un continuo susseguirsi di domani, raramente voluti o perseguiti, ma il più delle volte, semplicemente capitati. Questo accidentalismo ha poi trovato in me e in quello che realmente sono (una ragazza dai mille interessi, vulcanica, volitiva e decisamente impulsiva), un terreno particolarmente fertile in cui ha potuto sbizzarrirsi a più non posso.

Ma andiamo un po' a ritroso negli anni, all'incirca venti, sino a quando per motivi di lavoro di papà mi ritrovo improvvisamente ad Avellino. Essendo già allora (avevo 14 anni) alquanto vivace, mi do da fare per potere continuare ciò che avevo iniziato con un certo successo a Parma: la pallavolo ed il salto in alto. La situazione si dimostra disastrosa: così, non avendo alternative, inizio l'anno scolastico in preda alla più nera disperazione. Caso vuole che mi mettano come compagna di banco una tal Cesarina, lungagnona come me o quasi, che praticava uno sport che a mala pena avevo sentito nominare: la pallacanestro. Mi chiede di provare e mi ritrovo in Nazionale Juniores.

Sino a qui non c'è nulla di strano: migliaia e migliaia di ragazze in effetti iniziano proprio così. Dopo qualche mese, quando ero praticamente un'emerita sconosciuta, per di più ancora abbastanza incapace, a Reggio Emilia ad un raduno della Nazionale giovanile, ho la fortuna di essere vista da Enrico Campana (giornalista della Gazzetta dello Sport) capitato al Palazzetto per sbaglio per cercare un suo amico. Il giorno successivo, proprio sulla Gazzetta esce un articolo, non so a quante colonne, con titolo “La nuova stella nascente del basket femminile”.

Nel giro di pochi giorni si scatena un'incredibile asta tra le più prestigiose Società del Nord, ed io scelgo il GEAS di Sesto San Giovanni. Mi trasferisco a Milano e dopo un anno, al termine della mia prima stagione conclusasi con uno scudetto, sulla terza pagina del Giorno, Marino Bartoletti conia quella che è poi stata l'etichetta che mi ha accompagnata per tutta la carriera cestistica e non. Il titolo del pezzo era: «Anche il basket ha la sua divina creatura». Era proprio il periodo di grande auge della Laura Antonelli. Un tale articolo fa presa immediata non solo sui lettori, ma anche sui vari giornalisti sempre alla ricerca di personaggi da mettere in vetrina.

In men che non si dica, si cominciavano a muovere periodici che con lo sport non avevano mai avuto niente a che fare come «Novella 2000», «Grazia», «Amica», «Oggi» ecc. Inizia così, grazie ad uno scudetto, ma soprattutto grazie all'interessamento del tutto casuale dimostratomi dai media, non solo la mia escalation verso la popolarità, ma soprattutto verso quel qualcosa di indefinibile ed impalpabile che è il divenire personaggio.

Indubbiamente un'atleta diventa protagonista delle cronache e può diventare popolare, ma ritengo che ciò non sia sufficiente per divenire dei personaggi. Diciamo che la notorietà è la base indispensabile da cui partire e può semplicemente facilitare il successivo passo. Questo stadio il più delle volte lo si vive passivamente, raggiungendolo grazie ad un insieme di circostanze favorevoli, create in particolar modo proprio dai media. Sono convinta che senza tale supporto nessun atleta potrebbe passare dal ruolo di «campione» a quello di «personaggio».

Sarebbe stupido e privo di senso affermare che tutto quello che mi è accaduto è stato solo opera del caso o della fortuna. Già allora mi sono chiesta più volte perché proprio io e non altre mie colleghe altrettanto valide e capaci, ero stata scelta come rappresentante del mondo sportivo femminile italiano? Perché la stampa giocava proprio su di me le proprie carte? Il possedere una certa personalità ed estroversione oltre a determinate doti tecniche e atletiche, facilitava non poco il lavoro dei giornalisti. Inoltre, abitando a Milano e non in una piccola città di provincia, ero particolarmente comoda da contattare.

Infine, è forse questo il motivo principale, ero la dimostrazione vivente dell'erroneità della tesi ricorrente che vuole la donna-atleta molto più simile ad uno scaricatore di porto che ad un esponente del gentil sesso. Sta di fatto che, a questo punto, la gente comincia a riconoscermi per strada. Mio fratello (fin da piccolo ha dimostrato di possedere uno sviluppatissimo senso degli affari!), tutte le mattine mi chiede di firmargli degli autografi, che poi scopro rivende ai compagni di scuola in cambio di merendine, e comincio ad essere invitata a destra e manca per conferenze, premiazioni, tavole rotonde. Piano piano, quindi, e quasi senza accorgermene, entro a far parte di un meccanismo del tutto nuovo, in cui la gente (intesa come insieme di persone che non conosco affatto) comincia ad avere nei miei confronti un suo ruolo ben definito.

Ad aumentare la mia popolarità contribuisce moltissimo l'inizio di un'attività, siamo nel '76, allora alquanto inusuale. Era il momento in cui facevano capolino le prime emittenti private. Per puro caso ad una conferenza conosco il direttore di una TV lombarda che mi propone di tentare.  Lo faccio e mi accorgo di divertirmi moltissimo, anche perché riuscivo a provare quello stesso tipo di emozione e di stress (per me meraviglioso), che sentivo prima di ogni partita importante. Davanti alle telecamere, come nella vita, nonostante il ruolo ormai «pubblico», mi limitavo semplicemente ad essere me stessa. Nessun particolare testo, il trucco di tutti i giorni, gli abiti di tutti i giorni. Se avevo voglia di sorridere sorridevo, se no stavo seria. Non mi si chiedeva altro che di parlare di sport come io lo sentivo.

La mia vita prosegue così per diversi anni tra campi di basket e studi televisivi. Cambiano le squadre, cambiano le televisioni, ma fondamentalmente non cambia il mio modo di essere. Cinque anni fa, però, decido di concludere quella mia fase di vita, ritenevo che 28 anni fossero l'età giusta per iniziarne una nuova. Non volevo assistere al mio progressivo decadimento di atleta e soprattutto non volevo rimandare all'infinito l'ingresso nel mondo del lavoro, da me sempre visto con un certo terrore.

Per non buttare alle ortiche ciò che di meglio avevo fatto sino ad allora, decido di rimanere nell'ambiente che conoscevo meglio e nel quale già mi ero costruita un'immagine di credibilità. Non partivo quindi da zero, ed in questo senso potevo considerarmi una privilegiata, anche se ero conscia del fatto che la credibilità che mi ero creata come giocatrice non era sufficiente. Inizialmente, devo ammettere, sono entrata in una profonda crisi d'identità: era come rinascere ad una nuova vita, con l'handicap di un'età nella quale bene o male la maggior parte della gente ha già deciso il suo futuro, e con un passato alle spalle talmente impegnativo e gratificante da farmi apparire qualsiasi soluzione tristemente inadeguata.

Dopo questo primo periodo di assoluto disorientamento, nel quale ho avuto come prima reazione il totale rifiuto del mio passato e quindi anche del mio ruolo di personaggio legato alla figura di giocatrice, ho deciso di darmi da fare. Le strade da percorrere erano essenzialmente due: un lavoro di tipo tecnico e quindi allenatrice, general manager ecc., oppure un lavoro legato alla comunicazione, quindi giornalismo, televisione, attività di pubbliche relazioni.

Ho scelto questa seconda possibilità, verso la quale mi sentivo non solo naturalmente più portata, ma anche, grazie al mio recente passato, più preparata. Non ero più la Mabel Bocchi giocatrice (anche se mi ritrovavo lì proprio per questo), ma una professionista che, settimana per settimana, doveva guadagnarsi e mantenersi il posto. Innanzitutto non più uno spazio da gestirmi come meglio credevo, ma io gestita in funzione di quello spazio. Non più un'assoluta spontaneità, ma testi dettagliati con argomenti imposti da altri.

Impostazione di dizione, gestionale, della voce e dell'espressione del viso. Trucco, taglio, tinta dei capelli, abiti scelti in funzione della fascia di orario e del target d'ascolto. La mia immagine visiva doveva andare in pasto alla gente, ad un vasto gruppo di sconosciuti e quindi doveva apparire, così mi dicevano i superiori, come si presumeva mi volessero. Purtroppo allora ero ancora troppo insicura e troppo inesperta per capire il grave errore che stavo commettendo. Quella perdita di identità non avrebbe creato alcun problema se si fosse limitata all'ora settimanale di apparizione. Ma non era affatto così! La stragrande maggioranza della gente mi conosceva o forse è meglio dire che pensava di conoscermi, proprio per quell'ora. Ormai la mia notorietà era legata ad «American Ball» o a «Sottocanestro», e non certo alla Geas o alle mie imprese con la Nazionale. Con il passare del tempo, queste distorsioni interpretative da parte dell'ambiente esterno cominciano a crearmi grande disagio.

Faccio un esame di coscienza e decido di lasciare, almeno momentaneamente, l'ambiente televisivo, dedicarmi ad un'attività in cui posso tornare ad essere me stessa. Così comincia nel 1984, sempre grazie a circostanze particolarmente favorevoli capitatemi tra capo e collo, il mio lavoro nell'ambiente delle pubbliche relazioni, delle sponsorizzazioni e promozioni sportive: un'attività che mi piace, mi diverte e soprattutto mi gratifica. I due anni successivi, sono per me estremamente importanti e costruttivi per accumulare esperienze e crescere sia dal punto di vista professionale che personale. Il distacco psicologico dalla figura di campionessa non solo si è ormai compiuto del tutto, ma finalmente capisco cosa realmente sono anche al di fuori di un campo di basket e, fatto fondamentale, mi accetto con tutti i miei pregi e difetti. Avevo, nel frattempo, risolto anche un altro grande dilemma che mi trascinavo dietro fin dalla gioventù: l'avere sempre vissuto nell'ambiente sportivo, ritenuto il sacrario della scena maschile, in cui la donna-atleta costituisce un'eccezione se non addirittura una trasgressione, mi aveva fatto sorgere un interrogativo rimasto tale sino praticamente ad oggi: “In che misura una donna può allontanarsi dalle sue immagini, ruoli e modi di essere, entrare in un mondo non suo e rimanere sostanzialmente se stessa, cioè donna?”.

Personalmente, in quanto donna resa partecipe di una realtà prettamente maschile (sia quella di cestita che quella di giornalista sportiva), ho sempre cercato di farmi accettare adeguandomi a modelli che proprio femminili non sono. Per cui sempre forte, sicura, razionale, mai troppo emotiva, quantomeno con gli altri, uno stress indescrivibile! Finalmente oggi ho capito che è estremamente stupido rinunciare al proprio modo di essere. Preferisco rischiare, eventualmente espormi a critiche o a scontatissime battute ironiche.

Raggiunta questa consapevolezza mi sono trovata ad affrontare, su basi più sicure, il nuovo impatto con il mondo della TV. L'occasione è stata offerta dalla RAI prima con la «Domenica Sportiva» e poi con «Serata da Campioni». Questi sono gli ultimi paragrafi di questa mia piccola storia di personaggio sportivo e televisivo, nella quale sto imparando a conoscere un po' gli altri e soprattutto me stessa”.

Mabel Bocchi è nata a Parma il 26 maggio 1953. Ha conquistato nove scudetti con il GEAS, squadra con la quale si è aggiudicata il terzo posto nella coppa europea dei campioni. Vanta 120 presenze in Nazionale ed un quarto posto ai mondiali di Kali, dove è stata segnalata come migliore giocatrice in assoluto. Ha conquistato, anche, una coppa campioni GEAS. (a cura di I.M., ha collaborato Francesca Spano)