Guendalina piange. Piange e non si ferma più. Le passano mille cose fra i pensieri. Immagina come sarebbe stato tornare a Monselice, casa sua, con una medaglia al collo. Immagina a come sarà difficile dimenticare, scordare, cancellare quell’attimo maledetto, il momento in cui la freccia che sta per partire dal suo arco si mette a pesare una tonnellata. E scappa, senza chiedere il permesso, fino a sbarcare sul paione, il bersaglio, nella parte più lontana dal centro. Fa “3”. Roba che ti succede una volta su 10mila in carriera. Il centro, i “10”, gli “8”, i “9”, sono lontanissimi. Quel “3” è la condanna, vincono le russe, non andiamo in finale, poi perderemo anche la “finalina” per la medaglia di bronzo.
L’Olimpiade è anche questo, però. Tutte le sfortune del mondo si mettono d’accordo e si ritrovano in quell’attimo sulla tua freccia. E tu non puoi fare niente, devi accettare quello che succede, se non esistesse la sconfitta non ci sarebbe la vittoria. Ma a vincere sono poche, pochissime. E qualcuno può dirti, anche quando pensi che il dado sia tratto e che la medaglia sia quasi in bacheca, “non hai vinto, ritenta”. Bisogna saper perdere, diceva una canzone di qualche decennio fa. Guendalina ha uno sguardo che ti dice: “E’ una parola…”. Intorno a lei, le compagne non fiatano, la confortano in silenzio, dicendole con lo sguardo: si vince, ma si perde anche insieme. Quarte, le azzurre arrivano quarte. Per loro la medaglia di legno, il modo per dire che sei rimasta fuori dal podio. Il modo per dire: riprovaci fra quattro anni.