Lo sport può diventare un terreno di convivenza, rispetto e riconoscimento reciproco: è quanto emerge dall’intervento con cui, il sociologo Davide Valeri, ha illustrato i risultati della ricerca realizzata nell’ambito del progetto Uisp Sic!-Sport, integrazione, coesione. La tavola rotonda conclusiva della campagna Uisp si è tenuta giovedì 25 settembre a San Benedetto del Tronto (Ap), nella sala stampa dello stadio Riviera delle palme. Il progetto ha coinvolto 17 città italiane, giovani delle scuole e sportivi, lavorando in collaborazione con Unar e Lega serie A per diffondere buone pratiche e costruire uno sport davvero accessibile e partecipato, in ogni territorio e per tutte e tutti.
Il percorso ha preso le mosse da un punto di partenza semplice ma spesso rimosso: “Le discriminazioni nello sport non sono episodi isolati, non sono “goliardate” – ha detto Davide Valeri - Sono espressione di meccanismi strutturali che attraversano la nostra società. Razzismo, sessismo, abilismo, omolesbobitransfobia si manifestano ogni settimana nei campi da gioco, sugli spalti e nelle palestre. I dati raccolti parlano chiaro. Tra il 2021 e il 2022 sono stati registrati 211 casi di discriminazione nello sport, e quasi il 94% era di natura etnico-razziale. Il calcio resta lo scenario più colpito, ma non è l’unico: basket, pallavolo e atletica riportano anch’essi episodi significativi. Accanto a questo, emerge un dato strutturale: i giovani stranieri praticano sport molto meno dei coetanei italiani (53% contro 75%), e le donne rappresentano appena il 28% degli atleti federati”.
Si tratta di un fenomeno trasversale che riguarda le barriere di genere, l’accessibilità per le persone con disabilità, la visibilità negata agli sport femminili e la paura vissuta da tanti atleti LGBTQ+, il 41% dei quali preferisce non dichiarare la propria identità in ambito sportivo.
Il progetto SIC! ha scelto di intervenire in questo scenario proponendo risposte concrete, come la costituzione di 17 presìdi antidiscriminazione nelle città della Serie A, per dare ascolto e sostegno immediato; l’organizzazione di percorsi di formazione per arbitri, dirigenti e tecnici, così da riconoscere e affrontare i comportamenti discriminatori; la realizzazione di campagne pubbliche di sensibilizzazione, dallo spot con Junior Messias fino alla collaborazione con “Keep Racism Out”.
Valeri ha evidenziato alcuni problemi emersi dalla ricerca: spesso non viene effettuato il referto degli episodi discriminatori quindi è come se non fossero mai successi, le persone che l’hanno perpetrato si sentono impunite e non hanno timori a ripetere le azioni, mentre le vittime saranno sempre meno propense a segnalare, dando vita ad un circolo vizioso.
“I media raccontano poco e male il razzismo - ha aggiunto il sociologo - in particolare nel caso del sessismo vediamo scarsa attenzione e un linguaggio sessualizzato che invade lo spazio privato delle atlete, cosa che non accade ai colleghi uomini. Un problema simile esiste con l’abilismo: la disabilità viene spesso raccontata in maniera pietistica, ma sono sempre di più gli esempi che mostrano come la percezione generale stia cambiando: alle ultime Paralimpiadi sui social molti atleti paralimpici hanno potuto raccontarsi, riuscendo così a disinnescare pregiudizi e stereotipi”.
Qual è il risultato di questi mesi di lavoro?
“Questi interventi hanno mostrato una cosa importante: il cambiamento è possibile quando si lavora su più livelli contemporaneamente, istituzioni, sport di base, scuole, famiglie. Non basta la sanzione. Serve un cambiamento culturale. Serve che lo sport diventi uno spazio in cui insulto e discriminazione non siano più considerati “parte del gioco”, ma comportamenti inaccettabili. La sfida è lunga e riguarda tutti, le federazioni e i media, i tecnici e i tifosi, le istituzioni e le comunità locali. Lo sport non è mai neutro: può riprodurre le disuguaglianze, oppure diventare un laboratorio di giustizia sociale. Il messaggio che portiamo oggi è chiaro: se costruiamo ambienti sportivi inclusivi, con regole condivise, leadership rappresentative e pratiche educative, allora lo sport può anticipare i cambiamenti sociali. Può diventare un terreno di convivenza, rispetto e riconoscimento reciproco. Progetti come SIC! dimostrano che non si tratta di un’utopia, ma di una strada concreta. Tocca a noi percorrerla, insieme”.
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