“Se giochi a scacchi sai calcolare decine di mosse, ma la vita è un avversario imprevedibile”. È proprio questo, l’imprevedibilità della vita, il fil rouge del secondo libro di Flavia Piccinni, classe 1986, giocatrice di scacchi a livello agonistico (è una 2N con 1700 punti ITA) che adesso torna in libreria dopo la vittoria al prestigioso Premio Campiello nel 2005 e dopo quattro anni di pausa dal fortunato esordio di “Adesso Tienimi” (Fazi Editore). E per la sua prova più importante, romanzo su cui l’editore milanese Rizzoli punta come la rivelazione dell’autunno, ha scelto di raccontare di quello sport che ha iniziato a praticare appena adolescente a Lucca, città dove è cresciuta prima di trasferirsi a Roma.
Protagonista de Lo Sbaglio è Caterina, studentessa tanto mediocre quanto promettente giocatrice di scacchi, che adesso si trova a un passo dalle Olimpiadi. Peccato che la sua famiglia immagini una vita diversa per lei e abbia già deciso di giocare al suo posto la partita più importante che ognuno di noi deve portare a termine. La partita con il destino. Ma Caterina, imprigionata in una serie di mosse che non riconosce come sue, inaspettatamente si troverà davanti a un bivio decisivo che la obbligherà a fare i conti soprattutto con se stessa e con ciò che, forse, desidera davvero. E per la prima volta in tutta la sua vita dovrà, proprio come il suo idolo Paul Morphy, osare e rischiare tutto contro ogni logica, senza essere bloccata dalla paura di sbagliare. Dimenticando che “è più facile affidarsi alle mosse degli altri, che scommettere sulle proprie” perché nella vita, come negli scacchi, a volte sono proprio le variabili impreviste a decidere il destino.
Anche tu, come la protagonista del tuo secondo romanzo Caterina, giochi a scacchi. Quando hai iniziato ad avvicinarti al gioco del Re?
Ho iniziato a giocare a scacchi tardi, a quattordici anni. Ero affascinata da quello che la scacchiera poteva nascondere in quel modo misterioso che solo uno scacchista riesce a capire. Dopo le prime lezioni private con Riccardo del Dotto, avevo già deciso che mi sarebbe piaciuto giocare a livello agonistico. La tensione e la concentrazione, la fortissima competizione che ho affrontato durante i tornei sono cose che non ho più incontrato. Gli scacchi sono un gioco molto duro, molto cattivo. Come tutti gli sport individuali si è gli unici responsabili del proprio successo, ma ancor di più del proprio fallimento. Davanti a una scacchiera non ha significato la forza fisica o la furbizia, c’è solo spazio per l’intelligenza e la capacità di imporre al proprio avversario le proprie mosse. Le proprie scelte.
Quando giocavi avevi paura di sbagliare? Perché hai intitolato il tuo secondo romanzo “Lo Sbaglio”?
Credo che ogni scacchista tema di fare una mossa imprecisa. Sbagliare davanti al proprio avversario, e così mostrare la propria debolezza, è molto umiliante. Ricordo ancora la rabbia che provavo all’inizio, quando per la fretta e l’impulsività facevo mosse di cui mi pentivo un secondo dopo. Ma ricordo anche la sicurezza, la soddisfazione che regala un senso di onnipotenza indescrivibile, che si prova quando si vede la mossa giusta. La rarissima mossa da punto esclamativo.
“Lo Sbaglio” secondo me custodisce tutto il mondo di Caterina. Una ragazza che, come capita a chiunque di noi prima o poi, è costretta a fare i conti con la propria vita, con le cose che difficilmente vanno come pensavamo. Con quelle variabili che gli scacchisti conoscono bene, ma che non sempre sono capaci di affrontare senza essere bloccati dalla paura di sbagliare.
Esistono numerosi romanzi a tema scacchistico. Tu quali preferisci?
Uno fra gli scrittori che più amo, Giuseppe Pontiggia, era un abile giocatore e, oltre ad aver dedicato agli scacchi dei bellissimi racconti e un romanzo, ha firmato la splendida prefazione di uno dei libri che apprezzo di più: La psicologia del giocatore di scacchi di Reuben Fine.
Sinceramente non mi appassiona molto l’associazione meccanica che viene fatta fra scacchi e shoah, che considero un parallelo abusato per quanto riuscito sia nella Novella degli scacchi di Stefan Zweig che ne La Variante di Lüneburg di Paolo Maurensig. Non mi è poi dispiaciuta “La regina degli scacchi” di Walter Tevis, benché la storia di Beth Harmon sia alquanto surreale.
Negli ultimi tempi hai praticamente smesso di giocare. Ma qual è la tua apertura preferita? E la tua prima mossa con i neri?
Sono come Caterina, abitudinaria e affezionata alle “mie” mosse. Gioco la partita del centro con il bianco e la difesa scandinava con il nero. Certo, a volte cambio, ma queste sono le aperture che porto nel cuore.
Scrittura e scacchiera. Quali sono i punti di contatto tra il gioco del Re e la pagina scritta?
Se giocare a scacchi è una lunga, estenuante, partita contro un avversario reale, spesso scrivere è un match contro se stessi. In comune, però, la scrittura e la scacchiera hanno la necessità assoluta di concentrazione, il bisogno totalizzante di estraniarsi dal mondo e di concentrarsi con completa devozione su un’unica cosa. Dimenticando i propri tormenti, così come le proprie gioie. Tutto si svolge in quel momento, mentre si riflette sul pedone da muovere o sull’aggettivo da scrivere. Non c’è possibilità di ritrattare. È un modo per scappare dal mondo, ecco perché trovo entrambi così affascinanti.
Lo Sbaglio
Flavia Piccinni
Rizzoli (pp. 308, € 18,50)