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Lo sport nel lager

A Bologna, in occasione della mostra "Lo sport europeo sotto il nazionalsocialismo", si sono tenute due giornate di studi su quello che lo sport ha rappresentato tra gli anni '30 e '40. Tra politiche razziali e storie di singoli atleti

Il Bologna di Weisz dopo la vittoria della Coppa dell'Esposizione del 1937di Fabrizio Pompei

 

BOLOGNA - Scena 1. Lager: campo da calcio. Esterno. Giorno. Questo potrebbe essere l'inizio della sceneggiatura del film che il regista di origine ebraica, Kurt Gerron, è costretto a girare nel campo di Terezin, in Cecoslovacchia. Per propagandare all'opinione pubblica e in particolare alla Croce Rossa internazionale l'idea di una prigionia rispettosa dei diritti umani nel 1944, infatti, viene inscenata e filmata una partita di calcio tra i detenuti del lager. Alla fine della partita i giocatori, il pubblico e lo stesso regista verranno deportati ad Auschwitz e lì uccisi nelle camere a gas per non lasciare testimoni. Questa è una delle storie riportate nelle due giornate di studi tenute in occasione della mostra "Lo sport europeo sotto il nazionalsocialismo" aperta fino al 21 dicembre a Bologna, a Casa Saraceni.

Il 4 novembre e il 6 dicembre, nella sala della cultura di palazzo Pepoli di via Castiglione, a Bologna, si sono svolti infatti due incontri per capire cosa ha rappresentato lo sport durante il nazifascismo e come gli atleti stessi hanno subito persecuzioni, deportazioni e le conseguenze delle politiche razziali. Nella prima giornata, con gli interventi di Laura Fontana, responsabile per l'Italia del "Mémorial della Shoah" di Parigi, Gianluca Gabrielli, docente all'università di Macerata e Patrizia Dogliani dell'università di Bologna ci si è concentrati soprattutto sul valore che ha avuto lo sport per i regimi totalitari europei. In evidenza l'importanza del corpo, le differenze tra l'esaltazione della bellezza italiana e ariana, le politiche sportive fasciste nelle colonie e il diverso trattamento riservato alle "razze inferiori". Ma l'attenzione è stata rivolta anche all'attualità per capire come la discriminazione razziale possa avere successo ancora oggi. Ospite d'eccezione l'ex giocatore di Barcellona e Juventus, campione del mondo con la nazionale francese, Lilian Thuram, fondatore e presidente della fondazione "Education contre le racisme" che, grazie alla sua esperienza diretta, ha cercato di spiegare come ancora oggi il razzismo continui ad essere una costante negli stadi di calcio e nello sport in generale.

Il secondo appuntamento invece ha rappresentato soprattutto l'occasione per raccontare storie, vicende di singoli sportivi che sono stati colpiti in prima persona da rastrellamenti e persecuzioni e che hanno visto finire la propria carriera per motivi razziali. Quest'ultimo il caso del pugile Primo Lampronti, cui il partito fascista nel '38 nega il permesso di boxare perché ebreo, o dell'altro peso piuma Leone Efrati, anche lui ebreo, che venuto a sapere delle leggi razziali, parte dall'America per tornare dalla famiglia in Italia dove viene catturato e subito spedito ad Auschwitz. Lì viene costretto a battersi in incontri contro pugili più pesanti di lui per il divertimento delle SS e nel '44 dopo un gesto di ribellione in difesa del fratello, internato insieme a lui, viene picchiato a morte dai suoi aguzzini.

Un intervento di grande interesse è stato quello di Matteo Marani, direttore del "Guerin Sportivo", che ha raccontato la sua appassionante ricerca sullo storico allenatore del Bologna Árpád Weisz. Ebreo ungherese, Weisz allena la squadra campione d'Italia delle due stagioni tra il '35 e il '37, lancia a 17 anni Meazza, inventa i "ritiri" ed è il primo ad allenarsi in campo con i giocatori. Eppure Marani racconta di quanto sia stata difficile la ricerca su uno dei più grandi innovatori del nostro calcio. La vicenda di Weisz è emblematica di tutti quegli sportivi che, per motivi razziali, hanno dovuto rinunciare alla propria carriera prima, alla libertà poi e infine alla vita stessa. Costretto per la sua origine ebraica a non allenare scappa in Olanda ma anche qui, negatogli l'accesso non solo alla panchina ma anche allo stadio, va a vedere i propri giocatori dalle inferriate che circondano le tribune. Anche lui non riesce a sfuggire ai tedeschi che infine lo catturano e lo mandano a morire ad Auschwitz.

Tra le tante storie di morte anche una positiva: quella di Gino Bartali. A raccontarla lo stesso figlio Andrea, presidente della fondazione intitolata al padre, e Paolo Alberati, ex ciclista e scrittore. Bartali, vincente e amato dagli italiani, è l'esempio perfetto dello sportivo che si oppone al fascismo e che, sfruttando la propria notorietà e la propria forza riesce a salvare molte vite. Se infatti è noto a tutti il Gino Bartali campione d'Italia e maglia gialla, meno conosciuta è la sua attività di staffetta per una rete clandestina che fornisce documenti falsi ad alcuni ebrei rifugiati. Bartali tra il '43 e il '44 compie per circa 40 volte, in bicicletta, il tragitto  Firenze-Assisi, andata e ritorno: quasi 380 km in un solo giorno per portare, nascosti dentro la canna della bicicletta, i documenti falsi che hanno permesso a circa 800 tra ebrei e perseguitati politici di sfuggire ai rastrellamenti e aver salva la vita. Una storia se vogliamo a lieto fine che però, come ha voluto sottolineare Laura Fontana, non deve far dimenticare che vicende come questa sono solo piccole eccezioni, e che mentre Bartali faceva la staffetta la maggior parte degli italiani rispettava ossequiosamente le leggi razziali.

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