Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Morire di freddo a Bologna. Dal "caso" Devid interrogativi su servizi sociali, assistenza e sostegno con lo sport

Intervista a Ivan Lisanti, responsabile della commissione regionale Uisp "Diritti, integrazione e multiculturalità, cooperazione internazionale".

di Vittorio Martone


BOLOGNA - La cronaca che diventa caso, coinvolgendo nel dibattito istituzioni, servizi e pubblica opinione. Una dinamica che rischia di offuscare le realtà sociali e che sembra applicata anche alla storia di Devid, il neonato morto a Bologna tra le braccia della madre in piazza Maggiore il 4 gennaio scorso. Abbiamo chiesto a Ivan Lisanti, responsabile della Commissione regionale Uisp Emilia-Romagna su "Diritti, integrazione e multiculturalità, cooperazione internazionale" e per anni operatore sociale sul territorio bolognese, di aiutarci a guardare a questa vicenda con uno sguardo più distaccato.

Ivan, innanzitutto qual è il tuo parere su questa vicenda? Credi davvero ci sia stata una falla nelle procedure dei servizi sociali?
"Premetto che conosco la tragedia di Devid unicamente dalla cronaca e che ritengo per esperienza il più delle volte inaffidabili le ricostruzioni di fatti da parte di chi non conosce procedure e sistemi gestionali dei servizi pubblici. Giudizi imprudenti su informazioni parziali sono solo il sintomo di mancanza di misura e di responsabilità. Resta il fatto: è morto un bambino, è morto di freddo. Ciò che rende tragico l'evento è che sia accaduto qui tra noi, non in un'area di guerra o di malattie endemiche ma nella nostra città, tradizionalmente attenta al mondo dell'infanzia. Mi risulta, da quanto letto, che la madre fosse nota ai servizi sociali e che due figli, uno è gemello di David, siano ricoverarti consensualmente in una struttura comunale in gestione ai servizi sociali, mentre altri due precedenti figli siano in affido al Tribunale dei minori. La madre partorisce i gemelli Devid e Kevin il 13 di dicembre e viene dimessa dall'ospedale insieme ad uno dei due gemelli; l'altro verrà dimesso il 29. Il 4 gennaio muore Devid dopo una notte trascorsa, pare, in roulotte, dopo che l'ultima offerta di ricovero proposta il 31 dicembre era stata rifiutata dalla madre. Oltre la carta, le procedure e gli uomini, sempre e necessariamente imperfetti, resta il fatto. Riprendo e faccio mie le parole del procuratore dei minori: 'È doveroso offrire dei servizi ma se qualcuno non li accetta ed espone un bambino al pericolo ci sono gli strumenti di legge per tutelarlo'. Cos'è mancato allora? La trasmissione dell'informazione, la tempestività dell'azione, il coordinamento della presa in carico? È orribile dirlo e ancora di più saperlo: i servizi pubblici non riescono più a sostenere la domanda di aiuto, e questo non da qualche settimana. Ci scordiamo spesso che chi lavora nei servizi sociali è a sua volta una persona, magari con problemi simili a quelli delle persone che si rivolgono ai servizi: casa, reddito, figli piccoli e familiari anziani, non una macchina senza limiti nella resistenza psico-fisica. Cosa sarà di questi servizi, considerato che per tre anni le sostituzioni del personale che a qualunque titolo cesserà il servizio sono previste nella proporzione di uno su cinque e che la compartecipazione ai debiti dello Stato comporterà tagli di spesa agli Enti locali?"

In un'intervista a l'Unità l'economista cattolico e studioso di scienze sociali Stefano Zamagni parla di malattia del rifiuto. Qual è la tua esperienza nel rapporto con le realtà problematiche rispetto al tema "offerta d'aiuto e rifiuto"?
"Ho letto l'intervista e più modestamente credo che il rifiuto possa a volte essere dignità o vergogna, a volte inconsapevolezza dei limiti delle proprie risorse spirituali o materiali, a volte ancora egoistica mistica della proprietà privata della discendenza. Il rifiuto moderno dell'aiuto è, a mio parere, un sintomo del degradare della fiducia e dell'amore, sia da parte di chi non lo offre che da parte di chi non l'accetta. L'aiuto, la cooperazione sono connaturati alla vita, sono esistiti sin dalle prime comunità di organismi pluricellulari e proseguono ancora nelle comunità evolute statali, confessionali, autogestite, ancora resistenti a dispetto del cancro della differenziazione sociale e delle sue espressioni conseguenti: l'individualismo ed il neo-maltusianesimo. Il vero tema è ieri come domani la distribuzione del lavoro e del reddito, l'educazione all'uso delle proprie risorse affettive, relazionali e cognitive e solo in seconda battuta la riorganizzazione dei servizi. Se crediamo che non si possa cambiare più nella direzione prevista dall'art. 3 della nostra carta costituzionale o se anche solo prevediamo tempi lunghi che possano compromettere il presente delle persone, abbiamo il dovere di una risposta oggi. L'alleanza propugnata da Zamagni tra settore pubblico e terzo settore è sicuramente una risposta agibile, ma quale terzo settore: le imprese sociali o il volontariato? O entrambi? In ogni caso dobbiamo definire interventi e poteri".

Per bypassare la barriera, quanto ritieni sia utile un approccio basato sugli strumenti del gioco e dello sport?
"La nostra proposta di sport è sicuramente uno strumento d'aiuto per l'integrazione sociale o culturale, con capacità di recupero del rifiuto, perché centrato sulla persona e sul corpo emotivo e non sulle regole o il corpo come macchina prestazionale. La nostra organizzazione ha scelto da tempo, quando ha deciso di propugnare lo 'sportpertutti', di andare oltre l'orizzonte prestazionale verso lo sport di cittadinanza in Italia, impegnandosi non solo nello sport popolare ma anche nelle proposte di attività per i gruppi sociali emarginati dalla pratica sportiva. Ha scelto quando ha deciso di utilizzare lo sport come strumento educativo nella cooperazione internazionale all'estero con la fondazione della propria ong 'Peace Games'; quando ha deciso di organizzare i Mondiali Antirazzisti (oggi anche antisessisti); quando ha sostenuto con successo l'approvazione della prima legge sul gioco in Italia nella regione Marche. Dobbiamo comunque migliorare, potenziando gli investimenti sulla formazione di competenze relazionali e cognitive dei nostri operatori, retribuiti o volontari. Dobbiamo favorire le mobilità sociale nei nostri quadri dirigenti delle classi popolari, dei nuovi cittadini, dei giovani e delle donne, senza quote predeterminate, ma con la selezione determinata dall'adesione all'identità associativa e dalla competenza. La sfida è diventare sempre più agenzia sociale, mantenendo la specificità sportiva della nostra missione associativa, per contribuire all'alleanza tra settore pubblico e terzo settore nella costruzione della welfare community".

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