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Emilia-Romagna

A Reggio Emilia il sindaco Delrio dona il Tricolore alla Uisp

L'importante riconoscimento avviene il giorno dopo il monito di Napolitano alla Lega nord sull'unità d'Italia. Intervista a Filippo Fossati, presidente nazionale Uisp

La consegna del Tricolore a Filippo Fossatidi Vittorio Martone


"QUELLO CHE si sente è spesso un incoraggiamento ridotto al minimo anche dal punto di vista dell'espressione verbale, grida che si elevano in quei prati in cui non c'è il popolo padano, ma una certa parte del corpo elettorale. Che ha scarsa conoscenza di alcune cose, tra cui l'articolo 1 della Costituzione. La sovranità appartiene al popolo, ma si dimentica quello che viene dopo la virgola, e cioè che si esercita nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione. Non esiste una via democratica alla secessione". Con queste parole il 30 settembre scorso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano richiamava la Lega Nord e le spinte secessioniste professate dai suoi esponenti. Il giorno successivo a Reggio Emilia, in occasione del trentennale dell'associazione sportiva Let's Dance affiliata alla Uisp, Filippo Fossati, presidente nazionale dell'Unione Italiana Sport Per tutti, ha ricevuto nella sala del Tricolore dal sindaco reggiano Graziano Delrio una copia della prima bandiera italiana. A Fossati abbiamo chiesto quale sia il valore di questo riconoscimento.

"Mi è capitato di commentare questo evento parlando di 'meravigliose coincidenze'. Il dono del Tricolore alla Uisp non era casuale, poiché quel giorno una sua storica società sportiva come il Let's Dance stava riempiendo le piazze e le strade della città con le sue iniziative. La Uisp stava mostrando quindi ancora una volta ciò che è: una grande associazione popolare che usa lo sport per animare il territorio e la popolazione, anche nel tessuto urbano. Il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio ha sottolineato di avere compreso a fondo il ruolo che può avere lo sportpertutti: quello di una grande risorsa sociale per tenere insieme la comunità. E di questo riconoscimento siamo entusiasti".

Parlavi di coincidenze. E numerosi sono gli intrecci tra la storia d'Italia e quella della Uisp: associazione che nasce nel 1948 assieme alla Costituzione e che, appunto, riceve una copia del Tricolore nel 150° anniversario dell'unificazione. Come racconteresti a chi non conosce la Uisp il lavoro per l'unità del paese che quest'associazione ha svolto attraverso lo sport?
"La Uisp nasce sulle rovine, fisiche e morali, di una guerra che aveva diviso l'Italia tra nord e sud; sui resti di un paese squassato dalla dittatura e che solo con la resistenza era riuscito a rimettere più o meno insieme molte delle componenti che lo caratterizzavano; un paese che, comunque, continuava a fare i conti con forze che puntavano alla divisione. La Uisp fece parte a pieno titolo di un processo votato a ricreare un tessuto di comunità e di relazioni. La sua dimensione fu subito nazionale, senza comunità chiuse in se stesse. Allora era più semplice, perché i movimenti popolari non erano campanilistici. C'era un senso di apertura anche internazionalista. Noi interpretammo così lo sport, uno strumento che di base parla già un linguaggio unitario. Il nostro ruolo fu di accentuare questa spinta, che da allora è rimasta costante. Infatti non si troverà mai l'esclusione nella nostra storia".

La capillare presenza sul territorio nazionale è un tratto caratterizzante della Uisp, da centri più piccoli a conduzione quasi familiare fino ai Comitati più grandi che coniugano associazionismo e gestione economicamente sostenibile. Come si tiene assieme una realtà così frastagliata e complessa, soprattutto in tempo di crisi?
"Ci vorrebbero ore per spiegarlo nel dettaglio. Intanto, non è solo la Uisp, ma il mondo dell'associazionismo ad essere complesso. La storia di questo paese è fatta di grandi reti sociali diffuse sul territorio. L'Italia è un paese in cui, vuoi per un vago senso dello Stato vuoi per le difficoltà del privato for-profit, la società si è sempre auto organizzata: basti pensare che qui abbiamo 80 mila club sportivi, ovvero un quinto dei 400 mila presenti in Europa (anche se questa è una stima ancora imprecisa). E così vale per fondazioni, reti sociali e così via. Io credo che con la crisi ci dovrà essere una ripresa, uno sviluppo di questo mondo. Perché si sta rompendo un grande accordo, un patto non scritto che si era costruito, basato sulla collaborazione di questo mondo con lo Stato e le sue articolazioni: il terzo settore ha infatti costruito la rete dei servizi, una rete complessa con indirizzo pubblico. Il patto si sta rompendo, anzi con queste ultime finanziarie si può dire che si sia rotto del tutto. Non si trattava di un patto basato sull'assistenza pubblica: rifiuto questa 'chiacchiera' anche perché il mondo sportivo ha da sempre dato prova della sua indipendenza economica. Sta di fatto che il patto si è rotto e che qualcuno teorizza che sia anche un bene. La risposta che si dà alle comunità è quella di organizzarsi, produrre volontariato, nel mentre lo Stato si ritrae e lascia al mercato sociale la soluzione dei problemi".

Ti interrompo. Hai fatto riferimento ai meccanismi di sussidiarietà del terzo settore nel campo delle politiche pubbliche e al progressivo ritrarsi dello Stato. Vuoi dire che l'uscita dalla crisi sarà tutta a carico delle forze sociali?
"Siamo su quel crinale. Noi dobbiamo fare quello che, mutatis mutandis, facemmo all'inizio del secolo scorso con l'avvio dell'associazionismo volontario: rifare il miracolo di produrre autorganizzazione nella società senza alcun carattere identitario. Dobbiamo ritrovarci tra cittadini con la consapevolezza di dover fare da noi e fare anche per gli altri. Questo è l'unico modello per costruire una rete, che poi si ripresenterà al pubblico. Tocca quindi rilanciare la sfida di un associazionismo costretto a rafforzare l'autogestione riesaltando la funzione di legame sociale. La sfida ce l'abbiamo di fronte e dobbiamo rigiocarla in un territorio complesso, al tempo di internet, con fondamenti simili al passato per certi versi e completamente nuovi per altri. In tal senso, per tornare alla tua domanda di prima, la nostra complessità è una risorsa, poiché se fossimo troppo dipendenti dalle commesse pubbliche soffriremmo in modo troppo forte la scarsità di fondi; se fossimo troppo legati alle filiere agonistiche, soffriremmo le sponsorizzazioni private e la concorrenza delle federazioni; se fossimo troppo volontariato non saremmo all'altezza di mantenere la gestione efficiente degli impianti; se fossimo poco volontariato ci troveremmo di fronte all'assurdo dell'aver perso la nostra natura".

Questa è la sfida, dunque. Ma credi che ci sia modo, in questo percorso, di rompere l'eterno ritorno a condizioni del passato? Credi si possa riuscire a porre le basi per un rinnovamento di questo paese sia nelle pratiche che nelle politiche pubbliche?
"Io ho raccontato una storia che in questo paese si è sviluppata quasi a prescindere dal ruolo delle istituzioni dello sport, che sono state un oggetto strano, diverso, costruito con una loro filiera molto centralizzata e basata su un sistema imponente ma spesso isolato. In questa fase ci potrebbero essere le condizioni per aggredire questo nodo. Il sistema sportivo potrebbe trovare un suo assetto, ci potrebbe essere una benedetta riforma dello sport, o meglio finalmente una forma. Dopo settant'anni di delega in materia di politiche sportive, è il tempo di dare una forma allo sport in Italia. Da questa fase potrebbe nascere il disegno di una sussidiarietà moderna, in cui il pubblico dà indirizzi e disegna gli obiettivi, indicando la correttezza e la funzionalità delle gestioni, mentre il gestore si muove in uno spazio libero che è quello delle esigenze dei cittadini. E il gestore dev'essere l'associazionismo. Bisognerà costruire un sistema libero e flessibile, in cui tutte le espressioni trovino il loro spazio sotto una regia che sia pubblica, poiché gli obiettivi sono pubblici: sono beni comune come salute, benessere e sport".

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