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Emilia-Romagna

Un nesso abissale

La malinconia dello sport esaminata dallo sguardo del critico letterario Massimo Raffaeli

Il critico letterario Massimo Raffaeli - Foto di Nicola Alessandrinidi Nicola Alessandrini e Vittorio Martone

da Area Uisp n. 15
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Massimo Raffaeli è nato a Chiaravalle, in provincia di Ancona, il 21 luglio del 1957. Per oltre trent'anni si è occupato di critica letteraria con un occhio sempre rivolto al mondo sportivo, scrivendo saggi per "il manifesto" prima e per "La Stampa" poi. Nel 2005 ha raccolto nel volume "L'angelo più malinconico. Storie di sport e letteratura", pubblicato da Affinità Elettive Edizioni, numerosi di questi contributi. Per parlare di questo testo che "non ha alcuna preoccupazione di sistematicità", di sport e di letteratura lo abbiamo incontrato a Senigallia.

Uomo di lettere ma con un passato sportivo. Peraltro nella Uisp. Che approccio hai avuto con il calcio amatoriale?
"Avrò avuto poco più di dieci anni, era poco prima del '68. E nel mio paese, Chiaravalle, in provincia di Ancona, c'era (e c'è) una società sportiva che ha militato in interregionale. Io ero un minicalciatore, troppo inadeguato per provarmi con quel tipo di società. E invece c'era una squadra amatoriale della Uisp per cui ho firmato un regolare cartellino. Lì per un paio d'anni ho giocato. Pur avendo un ruolo abbastanza particolare, perché sono un mancino e giocavo terzino sinistro, ho dovuto fare i conti con il fatto che la passione era largamente superiore alle mie capacità. Poi ho smesso con il calcio e per alcuni anni ho praticato la boxe. Ne è rimasta una passione molto fervida anche se la boxe, non so dire se per fortuna o purtroppo, è uno sport morto".

Che giudizio ti formasti della Uisp?
"Era un ambiente davvero amatoriale. Anche l'istruttore, che era piuttosto anziano o che tale a me sembrava allora, era una persona alla mano che ci metteva a nostro agio. Era un riferimento, non invadente. Tantomeno pretendeva risultati agonistici (da me, anche volendo, non avrebbe potuto ottenerli). Solo dopo ho scoperto che la Uisp era una grande organizzazione nazionale, che aveva un radicamento popolare molto forte".

Passione che parte da lontano, quindi, quella per lo sport. Nel tuo libro "L'angelo piùMassimo Raffaeli intervistato a Senigallia per Area Uisp - Foto di Nicola Alessandrini malinconico" sei riuscito ad avvicinare due mondi, lo sport e la letteratura, usando la malinconia come un ponte. Da dove ha tratto origine questa connessione?
"Ho scoperto di recente una breve voce di Wikipedia che mi riguarda, in cui si dice che il calcio e la letteratura sono le passioni della mia vita. Ecco, non si potrebbe dirlo meglio. Io non riesco nemmeno a distinguere, se guardo agli anni della mia primissima formazione, queste due cose. Leggere è stata per me una passione primordiale; si potrebbe addirittura dire che, tramite un gioco che mi faceva fare un amico di famiglia, io abbia imparato a leggere sulle figurine Panini. Per cui, se guardo al mio passato, davvero il calcio e la letteratura sono due passioni iniziatiche e visive".

La malinconia è un sentimento particolare, che oscilla tra i significati di nostalgia, tristezza e addirittura di meschinità, termine che viene dall'arabo e che sta per misero, povero e per questo infelice. Proprio in virtù di questa ambiguità si potrebbe provare a fare una "anatomia della malinconia", richiamando il saggio del 1621 dello studioso inglese Robert Burton. Qual è il modo in cui tu definisci lo sport in senso malinconico?
"Uno dei miei più grandi maestri, Franco Fortini, ha scritto delle pagine straordinarie chiedendosi che cosa ci interessa delle arti, della poesia, della pittura (noi diremmo di una giocata di Maradona, fatte le debite differenze), rispondendo che il fulcro è il privilegio di dare una forma compiuta alle cose. Noi viviamo una vita che è scandita nello spazio e nel tempo dalla parzialità. L'arte è la restituzione di una totalità che non ci è mai dato di vivere. Per cui il sentimento della malinconia è un sentimento preliminare, che sia consapevole o no. È il sentimento di una mancanza. Che cosa ci manca? Forse appunto il dare forma alla nostra dispersione quotidiana. A suo modo anche lo sport serve a questo, nella bellezza compiuta di certi suoi gesti. La malinconia va distinta profondamente dalla nostalgia, un sentimento diffusissimo che ognuno di noi vive quando chiede che ritorni qualcosa. Dio ci guardi però dalle persone nostalgiche. La malinconia invece è la spia di una mancanza, che non necessariamente va pensata all'indietro. Per questo trovo che le persone o gli atteggiamenti malinconici siano infinitamente più costruttivi, portatori di qualcosa di buono".

Foto di Matteo AngeliniParliamo di malinconia con lo sguardo al passato. Dai tuoi articoli emerge il rimpianto per uno sport basato sul poco e l'essenziale, contrapposto a quello attuale che invece si fonda sulla sovrabbondanza e sull'inessenziale. Qual è la differenza che intercorre tra questi due modelli?
"Qui rischio davvero la nostalgia e non lo vorrei. Prendo atto che ad esempio il calcio di un tempo non fosse perfetto. Però quella natura ancora in qualche modo artigianale o premoderna lasciava paradossalmente libere le immaginazioni e i pensieri. Non eravamo assillati. Il tifo era un parteggiare abbastanza ingenuo, con nulla del credo identitario, fondamentalista, parareligioso di quest'epoca. Più che rimpiangerlo quindi si tratta di calcolare una differenza. E in questo caso lo sviluppo - per dirla con Pasolini - dei mezzi produttivi non ha coinciso affatto con un progresso, con la qualità della ricezione. Oggi il calcio è un immaginario e un linguaggio planetario, una coazione a ripetere. E la coazione è uno dei tratti tipici del consumo".

Altrove parli di utopia rispetto a "campioni che sperperavano classe nello splendore gratuito di un'azione". Verrebbe da dire che la malinconia allora è mancanza di sperpero.
"Senza voler convocare necessariamente grandi accrediti culturali, tocca dire che la nozione di spreco è legata alla nozione di dépense (dispendio, spreco sacro, ndr) di Georges Bataille, che negli anni '70 era uno dei padri del pensiero critico. Quest'idea della dépense è legata al concetto di potlatch (cerimonia votiva praticata da diverse tribù di nativi americani, ndr). Sono le società povere, quelle arcaiche contraddistinte dalla penuria, che in termini religiosi concedono alla divinità una ricchezza che non posseggono. Se ho scritto quella frase, spero in un contesto non eccessivamente enfatico, è perché appunto nel calcio premoderno c'era spazio e modo in cui la grande giocata valesse di per sé, non già finalizzata a qualcosa che è profitto. L'utopia dunque è questa, la bellezza gratuita godibile al di là di una metafisica dei risultati".

Si possono conciliare lo sperpero e il gusto dello sperpero con l'idea di uno sport essenziale?
"Questa è una vera e fervida contraddizione, perché lo sport è basato sull'idea di competizione e quindi anche di vittoria. Una cosa però è la gara combattuta, altro è l'imperativo categorico, militarista, patriottico, identitario e fondamentalista di vincere. 'Vincere e vinceremo' è una frase che a questo paese ha portato fortemente male. I grandi campioni giocavano tutti in grandi squadre che di solito vincevano, e lì potevano anche sperperare. Oggi esistono grandi squadre che hanno solo un collettivismo uniforme. Io trovo che il gioco del Barcellona, di certo vincente, se non ci fosse Messi sarebbe abbastanza stucchevole, ripetitivo, tayloristico. Molto preferibile il vecchio contropiede, come diceva Brera: l'azione di Bertoldo che non trova mai l'albero a cui impiccarsi e prende in giro re Alboino. Oppure quella di Davide contro Golia. Ma noi viviamo in un paese così ipocrita e soggetto alla retorica del nuovo che si è potuto taroccare perfino una parola come contropiede, che siccome sa molto di anni '60, adesso si chiama ripartenza".

In termini economici, dal tuo libro emerge una lettura materialistica dello sport. È il caso di un Foto di Matteo AngeliniNedved, incarnazione calcistica dell'efficienza e del plusvalore, o di un Tyson, "macchina da pugni etero diretta, teleguidata". Quali sono i riflessi dell'attuale crisi economica sullo sport e quali risposte lo sport può offrire alla crisi?
"Qui sarò più di sempre soggettivo. Io non ho alcuna cultura economica e come tutti sono suddito di questo sistema; solo per mestiere sono portato a una maggiore osservazione. È vero, esistono dei campioni che sembrano fatti per questo sistema. Pavel Nedved è un campione straordinario che nella sua polivalenza sembra l'incarnazione del modello Toyota. Un altro, che infatti è l'ultima espressione della boxe nel senso darwiniano del termine, è Mike Tyson. Io non so cosa lo sport possa insegnare all'interno di una crisi nata dal fatto, come diceva Paolo Volponi, che il capitalismo è come il Re Sole, un monarca potente e prepotente che mangia sempre troppo, sta male e fa pagare ai cuochi e ai sudditi i suoi malori. Io spero in quello che taluni economisti definiscono in termini di 'decrescita'. Non mi auguro affatto che si possa ritornare allo sport dei gentleman, però sì a una maggiore sobrietà e a un maggiore disincanto, a una passione legata al giocare e al vedere giocare senza l'assillo della vittoria. Veniamo da trent'anni di etica della competitività e tutti vediamo a cosa ci ha portato. In questo senso il 'fair play finanziario' voluto dalla Uefa non credo sia una panacea però di certo rappresenta il segno di un'inversione. Certe cifre sono scandalose, così come la quota che lo sport, e il calcio in particolare, ha nell'immaginario italiano. Non dimentichiamo che chi ha governato da vent'anni questo paese ha fatto degli slogan sportivi una clava del suo potere".

Il tuo testo prende il titolo da un saggio dedicato a Humberto Dionisio Maschio, un centrocampista argentino d'origini italiane "dallo sguardo fisso nell'eterna malinconia". Perché definisci Maschio l'angelo più malinconico?
"Sono nato nell'estate in cui arrivarono in Italia tre oriundi che, citando un vecchio film con Humphrey Bogart, i giornalisti chiamarono 'gli angeli con la faccia sporca'. Uno era Omar Sivori: l'estro portato all'estremo. L'altro era Antonio Valentín Angelillo: l'eleganza, il prodigio plastico del calcio. Poi c'era un ragazzo stempiato, precocemente invecchiato, originario del pavese, di Godiasco, che ebbe molta meno fortuna degli altri due. Questo era Maschio, che ho avuto la fortuna di vedere giocare in una pausa estiva quando vestiva la maglia della Fiorentina. Letteralmente mi stregò. Maschio giocava da fermo e tutto il gioco passava attraverso di lui. In quella partita segnò anche un goal bellissimo con una stoccata finale che rappresentava un gesto esatto, quasi cartesiano. Questa figura mi è sempre rimasta come un esempio di calcio molto umano, non eccessivo. Quando uscì questo mio libretto ho trovato l'indirizzo di Humberto Maschio a Buenos Aires e gli ho mandato una copia con due righe. La cosa che mi ha colpito e veramente incredibile nel mondo di oggi, è che quest'uomo mi ha fatto una bellissima e sorprendente telefonata da Buenos Aires per ringraziarmi, sempre alla sua maniera, con una forma anche distaccata di gentilezza, non meno partecipe e non meno umana. È una delle cose più belle che ho avuto nel mio lavoro. Non capita spesso che quel po' che hai fatto ti venga simbolicamente restituito. Ecco, mi piace che una delle occasioni in cui ciò è capitato sia relativa a lui".

Questo incontro con Maschio, per come lo racconti, sembra rappresentare per te un momento iniziatico, un rito di passaggio. Questa situazione rituale è molto presente nei tuoi scritti. Riusciresti a spiegare il perché?
"Solo da grande mi sono chiesto perché per tanto tempo mi fossi occupato esclusivamente di una certa tipologia di romanzi, quelli di formazione, che i tedeschi chiamano bildungsroman. E poi ho scoperto quello che in realtà tutti gli specialisti sanno, cioè che ogni romanzo è un romanzo di formazione, in quanto racconta sempre di un conflitto, che in un giovane è programmatico e mostra il divario tra la realtà e l'utopia, tra l'aspirazione di qualcuno ad essere qualcosa e i limiti del mondo e della società che gli sono più o meno crudamente, dolorosamente imposti. I riti di passaggio, i riti iniziatici sono i centri naturali in un romanzo di formazione. Quindi certi momenti della mia vita, come quella partita nel vecchio stadio di Ancona che si chiama ancora stadio Dorico, il poter vedere dalla provincia quel che non avevo mai visto, cioè una partita vera con dei campioni veri, nel mio minuscolo percorso individuale voleva dire confrontarsi con un altrove, con un'idea compiuta della realtà che quotidianamente non vivevo, con un'utopia. Non sono mai stato attratto dalle figure carismatiche, dalle figure onnipotenti ma sempre da figure malinconiche, cioè da chi vive questi conflitti in maniera quasi inapparente. Maschio era in questo quasi una figura ideale: un grande campione che non sembrava esserlo o che lo sembrava laddove non ci si sarebbe aspettati".

Nel tuo testo metti in relazione questo tuo momento iniziatico con un'altra storia. È l'incontro in un vecchio cinema di Torino tra un Gian Paolo Ormezzano bambino, che diventerà poi un affermato giornalista sportivo, e un già famoso Valentino Mazzola. L'esempio di Ormezzano e del suo modo di fare giornalismo sportivo è stato per te un elemento di formazione?
"Io sono un caso fortunato del welfare perché, pur abitando in provincia negli anni '60, avevo modo di frequentare il cral della manifattura tabacchi dove lavorava mio padre, quello che sotto il fascismo si chiamava 'dopolavoro'. Lì c'erano una biblioteca e un'emeroteca fornitissime e io passavo i pomeriggi a leggere tutti i giornali. Lì ho scoperto alcune firme che raccontavano il calcio in una maniera che mi toccava. Tra queste c'erano Gianni Brera, Gianni Arpino e Giglio Panza, che è stato maestro di Ormezzano. Gian Paolo Ormezzano era un giornalista pieno, saturo di estri scrittorii e di uno sguardo tutto suo, un portatore di grande libertà che ha sempre raccontato lo sport come una vicenda umana, capace inoltre di dominare tecnicamente più di una disciplina, tra cui soprattutto il calcio e il ciclismo (tanto che è stato il biografo di Coppi e Bartali). Ma Ormezzano ha sempre raccontato lo sport in maniera sanamente strabica, con un occhio dentro il fenomeno sportivo e l'altro vigile nel contesto di realtà".

Che influenza credi abbia avuto la comunicazione moderna sul mondo dello sport?
"Non so se abuso di un eccesso di disinvoltura ma la malinconia nella sua forma adulta si chiama critica, cioè scelta, distinzione. Non mi piace il modo di raccontare questa realtà, non solo questo sport. C'è una totale assenza di critica, di spirito critico. È come se si raccontassero tanti alberi ma non si sapesse che c'è una foresta. Le poche voci critiche presenti o vengono emarginate o sono prese, come capitava a Beppe Viola, come fiore all'occhiello per salvare il resto. E questo nel calcio è vistoso e insopportabile. Io ripeto sempre che noi siamo in realtà come Candido cui il dottor Pangloss racconta dalla mattina alla sera come si viva nel migliore dei mondi possibile. Questo non è il migliore dei mondi possibili. E invece la realtà viene raccontata come se fosse la natura. Ma quando un sistema riesce a fare passare se stesso non come il prodotto di una storia ma come la natura ha stravinto".

In Italia la narrazione del mondo sportivo è rimasta per molto tempo connotata dagli stilemi del fascismo, anche nel dopoguerra. Quanto credi che il perseverare di quelle forme abbia influito sul modo di fare giornalismo sportivo oggi?
"Se mi guardo indietro fino a metà degli anni '50 l'eredità linguistica di chi raccontava lo sport era quella del dannunzianesimo e del fascismo. Io mi intenerisco al pensiero delle cronache di Nicolò Carosio, apprezzabili per il suo essere un gentleman cavalleresco, ma erano cronache infarcite ancora di immagini littorie, fasciste. Nella carta stampata lo stesso si può dire di Bruno Roghi, che era sicuramente la firma maggiore negli anni '30. Poi è esistita una scuola critica di cui Brera era l'elemento più visibile. In quegli anni in cui c'è stata la grande espansione di questo paese si è formato anche un grande pensiero critico e antagonista ad ogni livello. Penso a come raccontava l'ippica Alberto Giubilo o a straordinari scrittori di boxe come Giulio e Giuseppe Signori, al ciclismo di Bruno Raschi e di Mario Fossati. Sono membri di quella generazione che ha liquidato il linguaggio della retorica fascista, patriottica e patriottarda. Senza voler essere schematici, si può dire però che la loro scuola sia arrivata agli anni '70. Le grandigie, non più fascistoidi ma con le vestigia delle società globalizzate, sono ricomparse negli anni '80: gli anni del glamour, in cui ci si vergognava di essere stati critici e antagonisti. Gli anni del pentitismo, della resipiscenza. E oggi infatti non si scrive come Bruno Roghi ma secondo una serie di stereotipi, con una bigiotteria linguistica che viene dal marketing".

Vorremmo avvicinare due concetti: quello di sperpero e quello di mito, dei quali si parla in più tratti del tuo libro. Unendoli ci è venuta in mente la figura di Prometeo, il suo furto del fuoco agli dei per sperperarlo donandolo agli uomini. Si tratta di una figura profondamente umana. Ci è sembrato che la tua prerogativa sia quella di ricondurre sempre i miti dello sport alla loro veste umana. Come si parla secondo te di sport riportando i divini campioni al senso etimologico della parola mito, che in realtà vuol dire racconto?
"Non lo so. Io sono un materialista ateo. Di fronte alla mitologia ho un forte giudizio negativo, perché il mito è il grande nemico della ratio e le riprese mito-grafiche e mito-sceniche della modernità hanno un segno profondamente nostalgico e reazionario, anche politicamente. Ma il mito in realtà è un racconto di vicende umane più o meno trasfigurate. Oggi è impossibile la mitologia proprio perché è incorporata e programmata negli oggetti o nei soggetti. Forse per ripartire dalla critica è anche necessario superare la saturazione. Immagino se avessimo tutte le partite giocate in tutti i tempi e potessimo rivederle. Il calcio sarebbe morto. Come se avessimo (i miei maestri mi perdonino) tutto di tutta la letteratura di tutti i tempi. Difficilmente la ameremmo così tanto. Perché il tempo è galantuomo anche per quello che elimina, non solo per quello che mantiene. La memoria è un elemento ancipite, doppio, distrugge più di quanto mantenga e in questa cosa così perigliosa c'è anche un elemento sano".

Secondo te lo sport è qualcosa che si può raccontare solo o preferibilmente con la parola scritta?
"Un secolo e mezzo fa la fotografia e la riproducibilità tecnica del reale non hanno distrutto la parola scritta ma l'hanno obbligata a occuparsi di qualcosa che non fosse la realtà mimeticamente intesa. Citavamo prima Georges Bataille, che diceva di occuparsi solo di ciò che non si vede. La parola scritta può raccontare ciò che l'immagine, soprattutto televisiva, non può. Possiamo chiamare questo qualcosa 'risonanza interna', che non si offre immediatamente come merce. Mi rendo conto che non è facile; molto più semplice è fare surf tra le merci, cavalcare quello che gli americani chiamano il mainstream, la corrente principale. Ma credo che i giovani giornalisti che fra trent'anni si rileggeranno rivedranno alle loro spalle - come quelli che dopo il ventennio esaltavano le aquile imperiali e gli spalti gremiti - tutta la bigiotteria".

Nell'introduzione del tuo libro lamenti l'assenza di un vero romanzo di sport e, in particolare, di calcio. Come commenti questa situazione?
"Il paradosso si basa sul fatto che il calcio è uno sport che si racconta già da solo, diversamente dal ciclismo e dalla boxe. Ha già quindi un suo sviluppo romanzesco. Si aggiunga inoltre che il genere romanzo nella nostra tradizione è fortemente minoritario, a parte eccezioni che vanno da Manzoni a Beppe Fenoglio a Paolo Volponi. L'assenza di un grande romanzo italiano che abbia il mondo del calcio come referente - con la parziale eccezione di Azzurro tenebra di Giovanni Arpino - continua comunque a stupirmi. Oltre a una difficoltà oggettiva degli scrittori italiani che sono più portati alla poesia lirica, credo che sia un fatto intrinseco a come e dove si gioca il calcio, al fatto che come sport è così invadente da proporre una propria narrazione continua".

Foto di Matteo AngeliniRecensendo il libro "Una intuizione metropolitana" di Dario Voltolini ricordi come per l'autore, nelle partitelle fra ragazzi, comincino a chiarirsi legami "abissali" tra realtà e immaginazione, presente e utopia. Nello sport non c'è forse anche una malinconia declinata al futuro, fatta di speranza e attese e, in qualche modo tornando al principio di questa intervista, credi che ci sia un nesso abissale tra lo sport e la malinconia?
"Sì, questo lo credo. E qui proprio utilizzo un verbo che non uso a man salva. Ho questa intuizione. In quelle partitelle, fino all'età che si ha alle scuole medie, i destini delle persone sono cose molto omogenee. Ahimè già alla fine delle scuole medie le differenze, l'idea di futuro, le parabole individuali cominciano ad essere irrimediabilmente segnate. E quindi anche in quelle partitelle di cui Dario Voltolini scrive, nei giardinetti o nei piccoli campi della periferia di Torino - su cui c'è anche un bellissimo documentario di tanti anni fa ambientato a Torino che si intitola Il potere deve essere bianconero -, beh, anche lì la selezione, l'idea di futuro incombe. I destini si vedono già. In un film che io amo, forse il film che amo di più che è C'era una volta in America di Sergio Leone - i cui dialoghi sono di un ottimo scrittore americano come Stuart Kaminsky -, a un certo punto si dice che i campioni e i brocchi si vedono alla partenza. È una frase cruda, cinica, però in grado di cogliere qualcosa di vero. Anche in quelle partitelle molto informali, il destino di classe intesa come collocazione sociale, come crisma sociale delle persone, a un occhio minimamente disincantato comincia ad essere abbastanza evidente".

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