Nazionale

Crisi dei media e comunicazione: ci salverà lo sport sociale?

Dal Seminario nazionale di comunicazione Uisp una riflessione sul ruolo del giornalista, mediatore e valorizzatore di differenze. Di I. Maiorella

 

Che cosa significa comunicare il sociale attraverso lo sport? Se ne è parlato a Milano lunedì 18 marzo, in occasione del corso di formazione professionale promosso dall’Uisp e dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia.

Proviamo ad azzardare qualche risposta e a mettere in fila alcune proposte.

Il giornalismo e i giornalisti, non solo sportivi, si trovano nel mezzo di una crisi che riguarda i media e il lavoro. Il terzo settore, unico ambito economico in forte espansione negli ultimi dieci anni, con particolare riferimento all’ambito socioassistenziale e della mediazione educativa, può essere un settore al quale guardare con attenzione. Non è un caso se cresce il numero di organizzazioni sociali censite dall’Istat, oltre 300mila, all’interno delle quali ben il 64% si occupano di sport e cultura. Ovvero: lo sport sociale e per tutti rappresenta una trama narrativa nuova e da non sottovalutare. Anche per quanto riguarda nuove possibili opportunità di lavoro, a patto di saper cercare nuove strade dal punto di vista giornalistico e comunicativo.

Proviamo a mettere in fila qualche elemento in più. La crisi dei media tradizionali è parte di una crisi più ampia, non solo editoriale ma anche sociale e politica: la crisi dei corpi intermedi e dei mediatori (tra cui i giornalisti). Siamo nella fase dei personal media, con tutti i suoi abissi informativi e le sue potenzialità. “Questo è il momento più critico da quando il giornalismo viene praticato – ha detto recentemente Carlo Verna, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti - perchè è cambiato un presupposto: quello dell’esclusiva per parlare da uno a tanti, dal momento che le nuove tecnologie consentono a chiunque una possibilità del genere. Quindi, si è determinata una polverizzazione dell’offerta editoriale. Il che ha provocato una crisi nel settore”. Social e infotainment (ossia programmi come ‘Le Iene’ che sono cosa diversa dal giornalismo) hanno affossato definitivamente il comparto. Ma crisi del giornalismo non significa necessariamente crisi della comunicazione: è lì che occorre misurarsi, senza perdere le caratteristiche, le finalità e il metodo giornalistico per arrivare alla ‘verità’, per avvicinare i fatti all’opinione pubblica. Le notizie, per l’appunto.

Verna ha definito quella del giornalismo una categoria composta da “due tipologie di disperati: da una parte ci sono coloro che non hanno più lavoro e dall’altro c’è chi il lavoro ce l’ha, ma non ha più tempo per sè proprio perché assorbito dal lavoro stesso a causa della drastica riduzione del personale nelle redazioni giornalistiche”. Insomma, per il settore è necessaria una riforma profonda e un diverso atteggiamento da parte delle istituzioni: lunedì 25 marzo si terranno a Roma gli Stati generali dell’informazione, come annunciato dal sottosegretario Vito Crimi. In quella occasione l’Odg porterà una propria proposta di riforma del settore e si confronterà col governo, insieme alla Fnsi.

In questo contesto non va trascurata la crisi della politica e dei partiti (due cose diverse, d’accordo), che ha riflessi sulla partecipazione e sull’idea di rappresentanza. E crisi della mediazione anche questa, al netto di populismi e demagogie a gogo.

Crisi dell’economia e del lavoro in ambito editoriale si traduce in perdita di posti di lavoro e in crollo della vendita dei giornali: si chiama crisi dell’informazione. Ovvero: precarietà, pochi contratti regolari, stipendi bassi e scarsa professionalità. Il sociale è la grande occasione (numeri e valori): il terzo settore è l’unico comparto che aumenta occupati, come spiega il Rapporto sul bilancio di welfare delle famiglie italiane curato da Mbs nel 2019. In generale il welfare è a tutti gli effetti un “settore produttivo”: vale oggi 143,4 miliardi (+6,9% rispetto al 2017), un valore equivalente all’8,3% del Pil. Si tratta di fatto di una delle industrie maggiori del Paese. Il suo volume è superiore a quello dell’industria assicurativa (139,5 miliardi di raccolta tra ramo danni e vita) e del settore alimentare (137 miliardi di fatturato), e vale circa una volta e mezzo quello della moda (95,7 miliardi) e tre volte e mezzo quello del mobile (41,5 miliardi).

Il terzo settore cresce anche dal punto di vista delle organizzazioni sociali presenti nel nostro Paese: dalle 235 mila organizzazioni non profit del 2001 siamo passati alle 336.275 a fine 2015 (+10% rispetto al 2011), con 789 mila dipendenti e 5,5 milioni di volontari. Quasi l’80% agisce grazie all’apporto di volontari, mentre le organizzazioni che impiegano dipendenti sono oltre 55 mila, oltre il 16% di tutte le realtà non profit. E più della metà risiedono nell’Italia settentrionale.

Il sociale rappresenta anche una risposta alla crisi dei valori: migliora le relazioni tra le persone, crea socialità e partecipazione, contribuisce alla coesione sociale del Paese. Il terzo settore è all’interno dei processi innovativi, il volontariato è vettore di pedagogia civile, impegno libero e gratuito. Contribuisce a creare nuovi profili professionali in una logica di coprogettazione e condivisione con le istituzioni e le pubbliche amministrazioni, con la capacità di coinvolgere anche un certo tipo di mercato e di imprese.

E lo sport che cosa c’entra col terzo settore? Con lo stesso termine ‘sport’ si definiscono ambiti sociali molto diversi. È “sport” la grande macchina del calcio professionistico; è “sport” lo spettacolo mediatico dei grandi eventi sportivi; è “sport” il grande mosaico dello sport associativo del territorio, nonostante lo scarso riconoscimento normativo e istituzionale; è “sport” il crescente fenomeno sociale dell’attività liberamente praticata (“sportivizzazione della società” a fronte della “desportivizzazione dello sport”, citando la celebre definizione del sociologo olandese Pol De Knop). Il documento di riferimento, in questo senso, non può che essere il Libro bianco dell'Unione europea sullo sport, adottato dalla Commissione Europea nel luglio 2007 che riconosce il "ruolo sociale dello sport".

Lo sport è tante cose insieme, parla a chi vuole conoscerlo con curiosità e capacità di osservazione. Così come si conosce e si ascolta un territorio di cui lo sport è spesso espressione. Nelle sue rappresentazioni di “storie di strada”, nelle periferie che attraversa e nei fenomeni di tifo che esprime. Lo sport sociale e per tutti chiede al giornalismo sportivo (anzi: a tutto il giornalismo) di osare di più, di osservare con più curiosità. Provando ad infrangere tabù esterni o interni, come quelli dell’impaginazione classica che relega lo sport all’alleggerimento o nelle pagine sportive, piegata alla dittatura del calcio che spinge tutto il resto ai parafernali degli “sport minori”.

Cresce il peso dello sportpertutti nella società perché crescono i praticanti sportivi: l’Istat nel 2017 ha scritto che sono oltre 20 milioni le persone di tre anni e più che dichiarano di praticare uno o più sport con continuità (24,4%) o saltuariamente (9,8%). L’incidenza dei praticanti sulla popolazione di 3 anni e più è pari al 34,3%. Tra gli uomini il 29,5% pratica sport con continuità e l’11,7% saltuariamente. Cresce anche il peso complessivo dello sport all’interno del terzo settore, a sua volta in crescita: la maggior parte delle istituzioni no profit opera nei campi di cultura, sport e ricreazione (65%).

Insomma: lo sport è un grande fenomeno sociale, di moda e di costume, indica una tendenza, consumi legati all’abbigliamento, alle app, alla palestra, al fitness…salute significa: “occupati del tuo benessere”. L’informazione non può rimanerne fuori: che fare? Comunicazione sociale e sport sono una grande occasione di lavoro e di riorganizzazione delle competenze, del ruolo del giornalista.

Comunicazione e sport sociale significa innanzitutto valorizzare il contesto, ovvero il mondo “intorno”, quello intorno al campo sportivo, tanto per capirci. Questo è il punto di partenza per raccontare il sociale attraverso lo sport e lo sport attraverso il sociale. Se il globale ha azzerato l’immaginazione e la critica sociale, il giornalismo e l’inchiesta, la ricerca di fonti dirette ed esclusive, il loro incrocio e la loro verifica. Se lo sport iperprofessionistico ha azzerato le differenze (tutte le piste di atletica devono essere uguali, così come tutti i campi di tennis, di golf e di calcio) lo sport sociale e per tutti punta proprio sulle differenze. Su racconti e cronache tutti differenti perché puntano sulla storia delle persone: ognuno è uguale solo a se stesso. Con una difficoltà in più: manca il catering giornalistico, indispensabile per la sintesi giornalistica di un evento sportivo, ovvero il risultato e il record.

E allora? Il contenuto giornalistico va pensato da capo ogni volta, va calato nel contesto sociale dove si svolge, va creato nelle formule e nelle chiavi lessicali da utilizzare. Con un’attenzione in più al linguaggio, al rispetto degli altri, al genere. Ecco allora che le “Carte” non sono più solo carte, da quella di Assisi a quella di Roma, da quella di Treviso alla Dichiarazione Onu del 2009 (ricorre il decennale) dove è scritto chiaramente che le “persone con disabilità” vanno chiamate così e non con parafrasi fantasiose come differentemente abili. Perché? Perché una vecchia regola del giornalismo dice di chiedere sempre ai diretti interessati come vogliono essere chiamati. Una regola che vale ancora. Così come vale il metodo giornalistico: attenersi al vero; essere essenziali nell’esposizione; scavare, rispettare, tutelare e incrociare le fonti. Palombari non prigionieri. Che sanno spiegare anche a chi trasmette comunicati stampa e lavora negli uffici stampa (giornalisti anche loro, un mercato in espansione) che la retorica è consistenza. Quindi palombari autocritici più che autoreferenziali, capaci di guidare la comunicazione sociale verso l’antiretorica dello “spietatamente giornalistico”.

Il pubblico e i protagonisti del sociale sono tanti e anche tanto esigenti, tanto vale saperlo ed evitare scorciatoie e pigrizie ambigue. L’obiettivo rimane quello di trasformare i tanti fatti ad impronta sociale che vengono realizzati sul territorio in notizie. Un compito che restituisce al giornalista centralità, ruolo e capacità creativa, ma anche sale professionale. E lavoro: i numeri dimostrano che il settore è in crescita, la comunità aumenta e chiede di essere raccontata. Un mercato che si arricchisce e gemma notizie. Con i vecchi e i nuovi strumenti di comunicazione, media di massa e personali. Utilizzando lo storytelling: storie che intercettano temi di attualità, in cui è facile immedesimarsi e con messaggi incoraggianti da trasmettere, con parecchie informazioni. La storia delle persone: ovvero, chi ci si riconosce socializza. Inventare nuovi codici narrativi, nuova bellezza stilistica e nuove emozioni. Al centro le persone, indipendentemente dalla loro notorietà e dal loro essere personaggi pubblici o politici potenti. Anche i cosiddetti “criteri di notiziabilità” andrebbero rivisti.

Lo sport sociale è territorio e cultura. Questo significa dare il microfono in mano ai protagonisti, alle periferie e alle strade, con l’occhio rivolto alla lezione di Pasolini. Senza cercare il clamore della notiziabilità, della notorietà, della spettacolarità. Lavorare sullo storytelling significa anche puntare sul punto di vista, sui consigli per vivere meglio con se stessi e con gli altri, sui valori del vivere civile che emerge “in filigrana” (la definizione è di Luciano Minerva).

Fatti di vita quotidiana, piccole grandi storie di dignità e di rifiuto del conformismo, di educazione alla vita sociale e di ribellione alla marginalità.

Ovvero: illuminare le periferie. Se i media e i giornalisti raccontano il territorio, ritrovano l’identità. Ma si assumono dei rischi. Più cose si conoscono, più complessi sono i loro collegamenti, più capacita e strumenti servono per comunicarli. Il rischio è dato da chi sbarra la strada e vuole impedirlo. Non c’è soltanto chi chiede di essere raccontato sul territorio, c’è anche chi punta a “spegnere le periferie”, a non illuminarle affatto, a mantenerle in una zona grigia.

Gli argomenti sono collegati alla deontologia, "all'orgoglio professionale" e alla necessità di rafforzare il collegamento tra giornalisti e reti sociali, associazioni, volontariato, economia sociale. Conoscere per raccontare: il territorio e le persone che lo abitano sono risorse preziose per la comunicazione sociale. Per questo sono importanti queste caratteristiche: stare sul posto (basta col sentito dire); competenza, chi racconta questi temi ha una responsabilità grande; seguire le storie, tornandoci sopra, facendo sapere “che cosa si è mosso nel frattempo”; non semplificare ma sintetizzare. (di Ivano Maiorella)