Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Non è mai solo un semplice gioco

Tradizione, pedagogia e risate. Nell’intervista a Massimiliano Disteso, responsabile del settore Giochi Uisp Emilia-Romagna, gli ingredienti fondamentali di questa disciplina.

 

di Ginevra Langella

 

BOLOGNA - «L'entusiasmo è una sorta di dono della natura. Anche durante i corsi di formazione ti rendi conto che è un ingrediente in più, è indispensabile. Con l'entusiasmo riesci a coinvolgere davvero le persone. Quello che dico sempre è: appassioniamoci prima noi alle nostre attività e poi in fase operativa diventa tutto più facile. E ricorda bene: tutti giocano». A parlare è Massimiliano Disteso, responsabile dei Giochi Uisp Emilia-Romagna, che così chiude questa lunga intervista, incentrata sui temi dell'educazione e dei giochi tradizionali. Una conversazione che rivela quanto, sotto la superficie del semplice concetto di gioco, ci siano poi ricerca, tutela della tradizioni, pedagogia e tantissime risate.

Come sta andando la ripresa delle attività durante questa fase?
«Per il momento è tutto completamente fermo perché tutti gli eventi sono stati annullati fino al 31 agosto, quindi stiamo cercando di rilanciare per settembre, covid permettendo! Ora come ora ci sono diverse realtà che appoggiano vari progetti, ne abbiamo uno che dovrebbe partire verso fine agosto ma fino a quando non c'è niente di confermato rimane tutto sul piano teorico. Considera poi nelle nostre attività è difficile mantenere il distanziamento: i giochi tradizionali sono sempre legati al mondo sociale e attraverso di essi cerchiamo sempre di mettere in relazione più generazioni, per creare uno scambio culturale e informativo. Ad esempio il tiro del ferro del cavallo è un gioco del primo dopoguerra che si porta dietro anche una storia, quindi poi vedi questi bambini rapiti da questi giochi che imparano uno di fianco all'altro. I giochi da tavolo poi diventano anche dei laboratori, dedicati per esempio alla lavorazione del legno con la presenza degli artigiani. Per il mondo dedicato all'accoglienza abbiamo fatto diversi laboratori che mirano a integrare la cultura del gioco di un determinato paese con la nostra. Quindi all'interno delle comunità abbiamo creato delle piccole gare, in cui si riescono a mischiare e unire le persone ma soprattutto le varie tradizioni. Per quanto riguarda tutta lo staff, ci stiamo confrontando anche attraverso le videoconferenze. Qualche attività, come il golf o il tiro dell'arco, è ripartita sempre seguendo i decreti, ma in realtà è tutto lasciato per un po' sospeso fino alla ripresa, che speriamo sia a settembre. Considera che da otto anni partecipo al Torneo dei Giochi Tradizionali che si tiene a Reggio Emilia e provincia, con la collaborazione delle scuole secondarie e di primo grado, ma abbiamo dovuto sospendere le attività e soprattutto le finali che avrebbero coinvolto circa 700 bambini, all'incirca 24 scuole. Speriamo che presto cambi tutto, e l'idea è inoltre quella di portare questo tipo di progetto anche fuori Reggio Emilia, magari a Bologna o da altre parti. È importante perché dai la possibilità di fare un tipo di attività fisica diversa, più inclusiva, perché in molti sport poi finisce che non tutti si sentono coinvolti, mentre quando noi arriviamo con i sacchi o le palle dodgeball vediamo proprio i bambini illuminarsi. Anche con giochi come il tiro alla fune ti rendi conto che la cosa bella è che possono giocarci davvero tutti».

Tra le tante che avete e promuovete, secondo te ci sono una o più attività che meriterebbero di essere più approfondite, perché magari meno considerate rispetto ad altre?
«Secondo me in generale non ci si rende bene conto: c'è un potenziale che solo calandosi dentro queste realtà si riesce a comprendere bene e purtroppo c'è poca curiosità verso queste cose. Quello che vorrei che passasse è che i nostri non solo dei giochi. Dietro c'è una sorta di macro-obbiettivo, che è quello di lavorare sui punti aggregazione sociale. Fröebel diceva che il gioco riesce a superare tutte le barriere e io questa consapevolezza la porto sempre con me e cerco di trasmetterla, perché so quanto il gioco incida in fase di socializzazione e di aggregazione. Te ne rendi conto quanto sei davanti a un progetto che ha una finalità a lungo termine, come ad esempio quello di cui ho parlato prima e che si tiene da anni nelle scuole. Lì emerge il senso di appartenenza a una scuola, a una classe, e si vince e si perde come scuola e come classe. Mi ricordo che cinque anni fa in una scuola della provincia di Reggio Emilia c'è stato un bambino che non socializzava tanto, il classico piccolo emarginato. Quell'anno la sua squadra riuscì a vincere al torneo del tiro alla fune e il risultato è stato che la madre qualche giorno dopo ci venne a ricercare per chiederci più informazioni su questo gioco. Sai cos'era successo? Che il bambino non era riuscito a dormire tanta era la gioia e l'eccitazione di aver partecipato e aver contribuito a vincere».

Invece a livello storico-culturale perché è importante preservare e continuare a praticare questo tipo di attività? Immagino ad esempio i giochi di piazza, che sono poi alla fine quelli che facevano anche i nostri nonni e che invece adesso non si vedono quasi più.
«Sostanzialmente per dare un seguito alle tradizioni e capire la storia che c'è dietro al gioco e perché è nato. Un tempo i bambini avevano a disposizione meno cose, c'era più povertà e meno disponibilità in generale. Attraverso il cortile si imparavano tantissimi giochi e soprattutto c'era la possibilità di inventarli, cosa che oggi è più difficile. Con un intervento più strutturato rispetto anche all'evoluzione sociale questi giochi possono continuare ad esistere e possono essere riproposti, perché poi alla fine sono giochi intelligenti e possono essere fatti da chiunque. Sono legati alla storia del territorio, poi. Tanti ragazzi negli anni hanno si sono laureati con tesi in ambito sociologico, centrando la tesi sul gioco e sulla tradizione di ogni paese. Per farti un esempio, un ragazzo che l'anno scorso ha lavorato con me mi ha raccontato di aver messo in relazione i giochi tradizionali e la cultura italiana con quella del popolo amazzonico. Ma ti rendi conto che bellezza? È stupendo».

 E di questo insieme di giochi qual è il tuo preferito? Ma soprattutto: com'è nata la tua passione per queste attività?
«Questa sì che è difficile, a me piacciono proprio tutti! (ride, N.d.R). Il fatto è che a livello umano ti danno proprio tanto. Quando ad esempio vai a fare gli eventi in piazza ti rendi conto che sono momenti per socializzare e per far imparare anche ai bambini i vecchi giochi di una volta. Li vedi tutti in fila, che aspettano il loro turno e anche questa cosa è bellissima, perché vedi anche si crea una forma di rispetto verso l'attività che fai. Ognuno ha il proprio turno e si deve imparare ad aspettare. Per quanto riguarda me, direi proprio che ci sono arrivato per caso, e sempre per caso mi sono appassionato. Mi sono trovato tempo fa in un parco dove ho visto questi striscioni Uisp e questi bambini che avevano a che fare con diverse postazioni e con diversi giochi. Mi sono interessato e ho parlato con i referenti dell'epoca, ho fatto il corso di formazione e ho cominciato piano piano a essere inserito nel progetto nelle scuole, dato che sono anche educatore e lavoro nelle comunità di anziani e disabili. Poi pian piano ho continuato, ho fatto il corso da dirigente per poi diventare il referente di questa attività. Ho lavorato tantissimo all'interno dei centri di accoglienza: mi piace perché, ripeto, non vai a parlare o insegnare solo uno sport, vai proprio a lavorare sull'aspetto emotivo e su quello della socializzazione. L'individuo entra in relazione con te e racconta anche le sue inclinazioni in ambito sportivo, si racconta in generale e si relaziona con il gruppo. Le tematiche son tante e belle: ogni volta che inizi non sai mai esattamente quando termini! I giochi sono tanti e davvero a me piacciono tutti, non ne ho uno preferito. Mi entusiasmano perché sono giochi intelligenti, come ad esempio ruba bandiera con le regole Uisp, che garantisce a tutti la possibilità di giocare. A 50 anni ancora mi metto lì e mi diverto come un matto. È un altro lato dello sport che cerco di portare ovunque. Poi vorrei sottolineare una cosa: io non mi ritengo solo un uomo di sagra. C'è la sagra, e meno male che c'è, ma ci sono contesti in cui sono richieste attenzione e responsabilità maggiore. Il percorso socio-culturale legato al gioco tradizionale è profondo e impegnativo e quindi di conseguenza secondo me richiede un certo tipo di riconoscimento».

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