Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Il barbaro sul filo

"E la robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre una all'altra" Ludwig Wittgenstein

La copertina di "Man on wire" di James Marshdi Francesco Frisari

dal numero 2 di Fuori Area

MAN on Wire è un documentario diretto da James Marsh che racconta come Philippe Petit, un equilibrista francese, riuscì nel '74 a gettare un filo fra le Torri Gemelle di New York e camminare così dall'una all'altra, a 400 metri d'altezza. Nel film s'intervista sia lo stesso Petit, la cui idea, anzi ossessione, nacque in coda dal dentista leggendo del progetto di costruzione dei grattacieli, sia i sodali che lo aiutarono nell'impresa e che rivelano tutti come l'incontro con quella forza della (sua propria) natura, quell'amico e amato da cui tutti poi si son distaccati, li abbia travolti, coinvolti e spinti a realizzare quello che non può non sembrare impossibile e che però nelle loro parole ancora incantate, pur a tanti anni di distanza, sembra far parte di un ordinario corso di eventi, che iniziano appunto con il conoscere Petit e il suo desiderio. Il racconto e le immagini del film sono secche, concrete e precise quanto oniriche, come il gesto incredibile che raccontano. E così è Petit, che dopo aver camminato a 70 metri d'altezza fra le torri della cattedrale di Notre Dame e poi fra i piloni di un ponte in Australia organizza e pianifica per mesi con grande precisione la camminata fra le torri, per poi lì abbandonarsi inebriato a quel suo gioco, a quel suo piacere, stando sul filo per 40 minuti. Petit deve innanzitutto conoscere e sondare le Torri, capirne la struttura e studiare un modo per far passare il filo d'acciaio dall'una all'altra. Tra il '73 e il '74 va molte volte a New York, con vari escamotage riesce più volte a salire sul tetto dei grattacieli ancora in costruzione. Una volta, fingendosi un giornalista inviato dalla Francia, intervista operai e progettisti. Poi c'è tutto l'allenamento per prepararsi al vento fortissimo, con gli amici che si aggrappano al filo e lo fanno ballonzolare per simulare quanto troverà. Infine c'è "le coup", come lo chiamano anche nei molti filmati dell'epoca che documentano le varie fasi: infiltrarsi, vestiti da operai, in ambo le torri; eludere le guardie aspettando per ore sotto un telone; attendere la notte per lanciarsi il filo con un arco e sistemare il complesso sistema di ancoraggio. E poi camminare.

Il coup la prima volta fallisce: qualcuno si ritira il giorno prima e lì si capisce che se Petit non fosse riuscito a salire su quella torre sarebbe sicuramente impazzito. Per rendersene conto non serve in realtà vedere quest'insuccesso, basta la sua faccia tirata e insieme ispirata di venticinquenne. Faccia che ora, a sessant'anni, è quella del sognatore e dell'ispirato, ma che da giovane era quella di un "re barbaro". Così Robert Louis Stevenson, autore fra gli altri del Dottor Jekyll e Mr Hyde, chiama Henry Thoreau, il pensatore americano dell'800 che si ritirò nei boschi a scrivere il suo Walden, di cui poi dice che "il suo unico grande merito fu che riuscì a essere felice". Stevenson oscilla - saran stati anche lì, nel leggere Thoreau, molto forti i venti - fra apprezzamento, ammirazione, rabbia e sdegno verso questo caparbio individualista, capace di dire solo (i suoi propri) no alla società, "un imboscato [che] non voleva che la virtù andasse presso i suoi simili, ma che se ne restasse in un cantuccio così da goderne da solo" (tutto ciò valga come breve recensione di questo bel libro, da poco tradotto in italiano: Robert Louis Stevenson, Il re barbaro, edizioni dell'asino, pp. 55, € 8).

Thoreau - e Stevenson, che non cade nell'automatismo moderno di considerarlo padre dell'ecologismo o altre cose molto belle e politiche ma che non colgono il suo spirito "barbaro" - ci aiutano a capire Petit che, appena sceso dal filo, con la stampa di New York sconvolta e arrembante che gli chiede e ripete "Perché? Perché l'ha fatto?", non sa che rispondere, davvero non lo sa, nemmeno adesso, non sa niente se non che lo voleva fare, e prima e dopo e durante era felice, il suo unico merito. Lì, a 400 metri d'altezza - che non fanno solo enfasi o rischio di morire ma realtà e dimensione di quanto fatto - dopo i primi passi, invece di continuare a testare il suo filo, abbandona la maschera di tensione e concentrazione e lo vediamo ridere, e camminare, anzi danzare, come dirà un poliziotto sconvolto che lo arresterà, e poi ancora distendersi sul filo, e continuare facendo per otto volte il tragitto, e guardare giù, verso la folla che ricorda di aver sentito mormorare e io gli credo a prescindere da qualunque legge dell'acustica. La folla è centrale: Petit ha scelto New York, quello che ha fatto l'ha fatto solo e solamente per sé, per la sua felicità, e insieme per tutti, rendendosi visibile nella sua inclinazione più privata e folle. Come Thoreau, che si ritira dalla civiltà - era a pochi chilometri dal villaggio d'origine in realtà - e poi non può non scriverne, rendicontando anche il numero di chiodi usati per costruire il suo rifugio. Insomma, tornando al tema di questo numero di Fuori Area, Philippe Petit, e così Thoreau, non è un anarchico, perché perfino l'anarchia è troppo civile, definita e definitoria, per un pazzotico, idiosincratico e folle che ha un piede sul tetto e uno sul filo. Forse è semplicemente un'artista, in cui la vita coincide con l'arte, non per romanticismo o vanagloria, ma per necessità, per natura barbara, per piacere e felicità, per forma che non si conforma ma si mostra, e per la capacità di rimanere lì in mezzo sul suo filo, che mi fa pensare a quello di un altro protagonista di questa rubrica, Roberto Bolano, che scrisse: "Cos'è, allora, la scrittura di qualità? Be', quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l'abisso senza fondo e dall'altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo".

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