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La parte dell'arbitro?

Dalla recensione al libro "La pausa del calcio" di Elio Matassi a un approfondimento sulla disputa che riguarda pop-sofia e filosofia dello sport

La copertina di "La pausa del calcio" di Elio Matassidi Vittorio Martone


"CESTO di lumache". È su questa espressione metaforica - rivolta da un tifoso romano a un arbitro di calcio - che s'incentrava un aneddoto con cui una mia professoressa di materie umanistiche, in quarta ginnasiale, cercava di parlarci del fenomeno del calcio e del tifo negli stadi. Se vado ancora indietro nel tempo pensando alle lezioni che ho avuto sull'argomento mi viene in mente il sussidiario delle elementari, in cui, con una sociologia abbastanza tagliata con l'ascia, si riassumeva l'atteggiamento del tifoso alle partite della domenica come un momento di sfogo delle tensioni lavorative della settimana. Con l'arbitro come predestinato capro espiatorio.

Proprio lo stadio come luogo di sospensione dal quotidiano è al centro del testo "La pausa del calcio" di Elio Matassi (Il Ramo editore, Rapallo, 2012. pp. 30 - € 10). Nel libro - stimolante nei contenuti anche se forse eccessivamente costoso, nonostante i volumi non si valutino mai a peso - il direttore del dipartimento di filosofia dell'università Roma Tre fa ricorso a una pubblicazione fondamentale del Novecento come "Massa e potere" di Elias Canetti per definire la "dimensione 'insulare' del gioco del calcio dal punto di vista spaziale". Uno status che porta lo stadio a costituire "una nicchia di separazione che esprime un'esigenza redentiva". La motivazione che definisce questa separazione è che "tutti i presenti nell'arena voltano la schiena alla città. Essi si lasciano dietro la vita dei loro rapporti, delle loro regole e abitudini. […] L'agitazione è stata la loro promessa - ma a una condizione veramente determinante: che la massa si scarichi verso l'interno".

In questi termini il libro di Matassi fornisce - sicuramente meglio del mio sussidiario delle elementari - un'interessante chiave interpretativa di un fenomeno, quale la fruizione violenta del gioco del calcio e la cultura ultras, che ancora si stenta a capire nelle sue origini. Dentro questo spazio circoscritto, che volta le spalle alle regole sociali, non dovrebbe rappresentare un problema la violazione delle regole. Ma il conflitto, mi viene da pensare, nasce proprio dalla cronaca, dall'attrito che i fatti che accadono dentro gli stadi creano con il "vivere civile" nel momento in cui vengono raccontati, riportati all'esterno. E infatti accade facilmente di sentirsi dire che anche gli insulti razzisti dentro gli stadi non sono poi così gravi, sono cose che rimangono lì, mica determinano le aggressioni fuori. Un esempio di questo ragionamento che mi aveva colpito lo si trova nella puntata del 6 gennaio 2013 del programma "in1/2h" di Lucia Annunziata in cui il blogger e tifoso della Pro Patria Ruggiero Delvecchio, intervistato 4 giorni dopo il caso degli insulti razzisti dei tifosi di Busto Arsizio a Boateng durante Pro Patria-Milan, afferma: "C'è anche un livello di goliardia che supera la vita normale. Chi vive allo stadio lo sa. Allo stadio si dicono cose che poi nella vita normale non le si dice. Però è la vita da stadio questa".

Elio Matassi, direttore del dipartimento di filosofia dell'università Roma TreL'esempio serve a mettere in evidenza come il libro di Matassi colga nel segno, parlando del calcio nel suo complesso come di un luogo di sospensione, in cui si genera appunto una pausa. E il fuoco su questo aspetto si conferma giusto anche quando, recuperando da Novalis la definizione di "delittuosa innocenza", l'autore apre qualche squarcio sul paternalismo che spesso accompagna le riflessioni e le semplificazioni sulla violenza nel calcio. E questo è uno dei meriti di questa pubblicazione. Un altro sta in una riflessione dell'autore che, partendo dal Faust di Goethe e dal complicato concetto di cura e procura, contesta - con il contributo del sociologo ungherese Frank Furedi - anche il diffondersi di un'etica terapeutica nella società contemporanea che "non promuove […] il narcisismo dell'autorealizzazione, bensì un senso diminuito di sé, una tendenza alla frammentazione e ad una nuova forma di alienazione". Qualcosa che in qualche modo fa i conti anche con quella che si definisce "medicalizzazione dello sport", l'invito alla pratica motoria come cura anziché come piacere (ne aveva discusso Massimo Davi nella nostra rivista Fuori Area).

Il testo però ha anche dei punti deboli. In apertura Matassi, interrogandosi su come "dev'essere inteso il genitivo di Filosofia del calcio", cerca di chiarire il suo approccio: evitare di guardare al calcio partendo dal punto di vista della filosofia per coglierne invece la filosofia intrinseca. Questa riflessione - più che una "excusatio non petita" - mette in scena un rischio: quello di sovrapporre a un fenomeno popolare una chiave interpretativa "alta" riducendolo a oggetto di studio, senza riconoscerne il profilo culturale "alto" di cui il fenomeno popolare (quale che sia) è già portatore. Nel testo non sempre si riesce a evitare questo errore, che secondo me caratterizza il conflitto alla base della corrente denominata - dall'omonimo festival nato nel 2011 a Civitanova Marche - pop-sofia. La disputa è ancora aperta e vede da un lato accuse e detrazioni come quella del giornalista e scrittore Edoardo Camurri dalle pagine de' il Corriere della Sera, dall'altro le difese e le rivendicazioni di Matassi stesso dal suo blog su il Fatto Quotidiano. Questo il motivo che ha spinto la nostra redazione a dedicare proprio alla filosofia dello sport un approfondimento sul nostro sito e sulla prossima uscita della nostra rivista Fuori Area. Ovviamente, lungi da noi voler fare la parte dell'arbitro.

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