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Emilia-Romagna

È solo un gioco. Oppure no

Nel nuovo numero di Fuori Area raccontiamo la vita di Egri Erbstein, allenatore, broker in borsa, ma soprattutto giocatore e grande amante di "Homo Ludens" di Johan Huizinga. Qui parliamo del libro

di Francesco Frisari

 

DI MIO, nel mio personale piccolo, è un po' che rifletto su tutte quelle espressioni che usiamo e che fanno più o meno "è soltanto un…" oppure "è solo un…" e poi parliamo di sogni, modi di dire, film, romanzi, favole, ricordi e giochi. E queste espressioni - che non sono credo "solo" dei modi dire - appaiono interessanti perché poi tutte le cose che svalutano, dai sogni alle nostre parole, le dobbiamo recuperare per capire noi stessi, dargli importanza e riconoscerci in esse. E c'è chi ne ha costruito delle discipline a partire da questo recupero, mi viene in mente Freud e la psicanalisi ma anche la linguistica. Insomma, in alcuni casi, un modo di dire è "proprio" un modo dire, è ciò che noi, più o meno consciamente, intendiamo, e un sogno è "proprio" un sogno, ci parla e ci immagina e noi parliamo e immaginiamo in esso, e anche qui l'incoscienza ha la sua importanza. Eppure noi ci troviamo a svalutare spesso queste parti delle nostre vite, spesso per scusarci ("non te la prendere, era solo un modo di dire") e più in generale per non prenderci l'impegno, la serietà e l'importanza - e anche la bellezza e lo spavento - dell'interezza delle nostre vite, di ogni loro parte, anche di quelle meno vere, razionali, controllate, letterali e obiettive.

Ebbene il libro "Homo Ludens" dello storico olandese Johan Huizinga è un importante tentativo di evitare questa contrapposizione fra parte seria della vita, disciplinata, sensata e degna di attenzione, e una parte irrazionale, finzionale, puerile. L'idea di Huizinga è che il gioco sia un  elemento, anzi l'elemento essenziale nella formazione della nostra cultura. Non una suaparte, condivisa anche con gli altri animali, ma una sua qualità irriducibile ad altro e generatrice di senso, pratiche, riti, insomma, di cultura. Tenta quindi di analizzare il concetto di gioco e allo stesso tempo mostrare come varie parti della nostra vita seria gli siano non solo imparentate, ma si originino in questo. Intrecciando storia e antropologia Huizinga ritrova il gioco nel diritto, nella guerra, nel sapere, con molti e attenti esempi a mostrare come soprattutto nell'antichità, nemmeno troppo remota, alcune pratiche e istituzioni civili come i processi o l'educazione erano innanzitutto giocate in vere e proprie competizioni - il nome del processo in greco era appunto agon. Uno dei tratti su cui Huizinga più ritorna è il fatto che "il gioco non è la vita "ordinaria" o "vera"; è un allontanarsi da quella per entrare in una sfera temporanea di attività con finalità tutta propria". Questa separazione viene ritrovata in molti elementi della nostra cultura, cosicché il "sacro luogo isolato, tagliato fuori per così dire dal mondo delle cose consuete" assume via via la forma di un'aula di un processo, di un tempio, di uno stadio, dell'accademia, di un teatro.

Questo distacco dall'ordinario però non coincide affatto con una svalutazione del gioco, anzi Huizinga riflette proprio sulla formula da cui sono partito, e dice che "in quest'idea del 'soltanto per scherzo', come è nel gioco, sta racchiusa la coscienza dell'inferiorità della 'celia' di fronte al 'serio', coscienza che sembra essere primaria. Però tale coscienza di giocare 'soltanto', non esclude affatto che questo 'giocare soltanto' non possa avvenire con la massima serietà, anzi con un abbandono che si fa estasi ed elimina nel modo più completo, per la durata dell'azione, la qualifica 'soltanto'". Tutto il suo lavoro cerca quindi di scardinare l'opposizione fra gioco e serietà, mostrandone tutte le inconsistenze e difficoltà, forse con un approccio a volte schematico, e un po' ripetitivo, ma comunque originale. La schematicità è data forse dal fatto che Huizinga ha un concetto un po' troppo stretto di gioco - lascia fuori per sua stessa ammissione i giochi dei bambini piccoli, forse i più interessanti - e di lì questa a volte eccessiva insistenza sul gioco come staccato dall'ordinario - proprio lui che ci vuole mostrare come la nostra vita, tutta, sia piena di gioco e da lì venga. E poi ancora sulle regole che governerebbero tutti i giochi, "assolutamente obbligatorie e inconfutabili" e che li distinguerebbero e accomunerebbero.

Proprio in quegli anni c'era infatti un altro signore, un filosofo, Ludwig Wittgenstein, che per altri suoi motivi indagava i giochi, e nel suo libro "Ricerche Filosofiche" diceva che non c'è una singola cosa che accomuna tutti i giochi, dagli scacchi alla pallina tirata contro il muro. Piuttosto i giochi sono una famiglia, con somiglianze che si sovrappongono e si incrociano fra loro: il naso del padre si ritrova in un figlio e non nell'altro che invece ha gli stessi occhi del padre e la corporatura di uno zio e così via. Huizinga invece, per amor della propria causa - giusta soprattutto quando come detto ci vuol far ripensare davvero a cosa sia serio e cosa no - ogni tanto perde di vista come la stessa cultura sia un intreccio di somiglianze di famiglia e tentare di trovarne un centro, pure un bellissimo centro in movimento come il gioco, le faccia un po' danno.

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