Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Un subacqueo calato nel nulla

Gabriele Tagliati, coordinatore dell'attività di diving della Uisp Emilia-Romagna, racconta la sua esperienza come operatore nelle tendopoli aquilane. Un contesto di incertezza in cui, anche attraverso lo sport, sono nati spazi di integrazione e socialità

La tendopoli di Cento, in provincia di Ferrara - Foto di Matteo Angelinidi Vittorio Martone

con la collaborazione di Stefano Miglio

 

leggi il reportage "Un terremoto nello sport" nell'ultimo numero di Fuori Area


RAVENNA - Gabriele Tagliati è il coordinatore delle attività subacquee della Uisp Emilia-Romagna. Dopo il terremoto in Abruzzo del 2009 fu uno dei volontari dell'Unione Italiana Sport Per tutti attivi nelle tendopoli aquilane, all'interno delle quali vennero organizzati laboratori di attività motoria per bambini e alcuni iniziative di intrattenimento per anziani. "All'epoca partii soprattutto spinto da mio figlio - racconta Gabriele - che avrebbe voluto dare una mano come volontario ma, essendo ancora minorenne, fu costretto a rimanere a casa". Abbiamo parlato con lui per capire innanzitutto che tipo di attività nel concreto sia stata svolta a L'Aquila.

"Il nostro compito - afferma - era legato innanzitutto alla gestione dei giochi per i ragazzi durante il giorno, nel mese di agosto, con le scuole chiuse. Svolgevamo tutto in un autogonfiabile molto grande, che era attrezzato anche con una piccola piscina. Dal pomeriggio si coordinava invece l'attività per gli anziani: dall'organizzazione di tornei di bocce o ai ritrovi con i loro racconti ai ragazzi su L'Aquila antica. Quando c'era bisogno davamo una mano ai volontari della Protezione Civile. I campi erano particolarmente controllati e questo impatto era per me negativo. Come ho detto, io sono andato lì in agosto: erano già passati mesi dal terremoto, non si avevano certezze e montava la divisione tra i disillusi e i fiduciosi".

In questa situazione ti sei messo in gioco portando la tua esperienza di operatore sportivo. A quali attitudini credi di avere fatto ricorso?
"Io sono un istruttore di attività subacquee e lì ero calato nel nulla. Ma lavorando con i bambini in tanti anni sono riuscito a sviluppare esperienze che vanno oltre la sola istruzione tecnica. Questa è un'attitudine normale per un educatore Uisp che è abituato, attraverso lo sport, a parlare con i giovani, anche con problematiche. Questa è un'inclinazione fondamentale in situazioni come quella della tendopoli, perché lì hai bisogno di stabilire un contatto capendo qual è la finalità del tuo intervento, logicamente spogliandoti della tua disciplina".

Qual è stata la necessità primaria a cui avete dovuto dare risposta?
"La cosa più giusta da fare in un campo, e quasi più triste da affrontare, è garantire una normalità. Questa ricerca si scontra dentro di te con il dubbio, ché sembra che stai facendo di tutto per far dimenticare. Ma non è far dimenticare, è creare situazioni tali per distrarre, dare degli spazi mentali. E credo che lì un po' ci siamo anche riusciti".

Avete dovuto gestire tensioni particolari sul piano emotivo?
"C'erano tende pluri-familiari in cui vivevano assieme famiglie diverse. Con tutte le grandi tensioni che ne derivano, visto che non hai più una privacy. Gli anziani queste cose se le facevano scorrere addosso, ma gli adulti meno. Sia quelli che andavano al lavoro sia quelli che il lavoro lo avevano perso. E i ragazzini, ci accorgevamo, avevano degli stress non tanto legati alla paura da terremoto quanto piuttosto ai rapporti. Ci dicevano che il papà e la mamma non erano più gli stessi, erano più cattivi. Ti scontravi quindi con situazioni particolari che andavano gestite con il dialogo".

Queste tensioni comportavano aggressività nei bambini? E se sì, la si vedeva riflessa anche nel modo di giocare?
"Non ci è capitato di vedere tra i bambini le tensioni familiari riproposte nel gioco. E comunque i giochi che abbiamo proposto erano tutti collaborativi. Quindi particolari situazioni di scontro non si sono verificate. Tra gli adulti poi, la convivenza forzata, alla fine, invece di creare tensioni ha portato a una maggiore collaborazione anche tra italiani e stranieri. E questo ce lo dicevano anche vari ragazzi rumeni ospiti nelle tende, che riuscivano a integrarsi molto meglio di quanto non fosse avvenuto dentro L'Aquila".

Oltre al gioco e allo sport, ci dicevi che l'attività era molto incentrata sulla creazione di spazi di socialità. Che benefici hai riscontrato tra i bambini che hanno partecipato?
"Van divisi i momenti. Nel momento in cui organizzi qualcosa, finita la partita è tutto a posto, siamo contenti, quattro risate poi non sai più cosa stai pensando. Ma in particolare mi è piaciuto molto quando gli anziani passavano il tempo con i ragazzi. Una cosa nata anche in sordina, con una signora con una voglia di parlare esagerata, un'affabulatrice molto coinvolgente. Siamo riusciti a far entrare nella sua tenda i ragazzini, poi gli adulti e molti volontari che si erano fermati lì ad ascoltare racconti che spaziavano dalla seconda guerra mondiale al boom degli anni '70. Da quel momento abbiamo riproposto questa formula e c'era la gara, degli anziani per parlare e dei ragazzini per ascoltare. Me ne ricordo uno che mi chiedeva 'Al pomeriggio quale nonno viene a parlare?'. Ed erano momenti in cui ad esempio lo sport non c'entrava niente".

Che utilità credi abbia avuto in questo processo la proposta di attività motoria?
"Quando sono andato via da L'Aquila ho espresso un giudizio un po' particolare. È stata un'esperienza positiva sia per noi che per le persone del luogo ma è stata molto lasciata all'improvvisazione. Noi dovremmo adesso pensare di mettere in piedi una formazione continuativa per interventi di questo tipo, anche per fare un piccolo database di chi ha sviluppato competenze e conosciuto almeno teoricamente queste situazioni".

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