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Nella rete di Nettuno

Dopo il disastro aereo del Grande Torino, la nazionale italiana di calcio andò in nave a giocare i Mondiali del 1950 in Brasile. Arrivarono sfiancati dalla traversata per venire eliminati subito. Abbiamo incontrato quattro testimoni di quella squadra: Amedeo Amadei, Giuseppe Casari, Osvaldo Fattori, Egisto Pandolfini

Foto di Matteo Angelinidi Francesco Frisari e Vittorio Martone

foto di Matteo Angelini


Guarda il documentario "Il viaggio della Sises"

da Area Uisp n. 14

 

Amedeo Amadei, a 90 anni compiuti, va ancora in macchina tutte le mattine a lavorare nel forno di famiglia a Frascati, distrutto dalla guerra e che ricostruì grazie ai guadagni di calciatore. È stato centravanti della Roma scudettata nel 42/43 prima, dell'Inter e del Napoli poi; grazie alla sua notorietà nel '52 fu anche eletto consigliere comunale a Roma con 17mila preferenze. Nel marzo 1949, al ritorno da una tournée in Spagna con la nazionale, era seduto in aereo accanto a Eusebio Castigliano, mediano del Torino. "Ricordo che mi disse: 'Guarda quanto è bella... ecco Superga!'". Due mesi dopo, il 4 maggio del '49, il Grande Torino, che aveva vinto quattro scudetti consecutivi e si apprestava a conquistare il quinto, si schiantò proprio sulla basilica di Superga, tornando da un'amichevole a Lisbona. "Il crollo di un'opera" titolò il Corriere dello Sport, e la domenica successiva le partite vennero precedute da un minuto di silenzio in tutto il mondo. "Non era una squadra qualunque. Per chi li incontrava non perdere o perdere con un gol era un successo", ricorda Egisto Pandolfini. Classe 1926, centrocampista toscano con una carriera fra Fiorentina, Roma e Inter, ha passato poi una vita intera a crescere talenti per la società viola. Racconta Osvaldo Fattori: "Quanto mi piaceva quella squadra. In nazionale avrei voluto giocare cinque minuti con loro, ma sono stato convocato troppo giovane". Veronese del 1922, mediano dell'Inter, ancora oggi, a 89 anni, ogni pomeriggio è sui campi della Fulgor Appiano a insegnare ai bambini quella tecnica che lo portò in azzurro. "All'epoca c'era il ct Pozzo, quello delle due coppe del mondo, e non potevo dirgli: 'Mister, mi faccia fare almeno cinque minuti in modo che lo possa raccontare'".

Ai funerali parteciparono 500mila persone e tutti i nostri intervistati erano presenti. Giuseppe Casari, classe 1922, all'epoca portiere dell'Atalanta prima di trasferirsi poi al Napoli, partecipò a quello cerimonia in rappresentanza della sua squadra. È fra i pochi a potersi vantare di aver sconfitto quel Torino, "che a Bergamo ha sempre perso", per poi rifarsi - è lui stesso a sottolinearlo - con cinque o sei gol nella partite casalinghe. "Mi ricordo quando sono morti, uscivo dal cinema. Mi fermano, mi dicono: 'Casari, è caduto l'aereo del Torino!'. 'Ma cosa te contet sü?'. Arrivo a casa, mia madre mi dice: 'Ha chiamato il presidente, sei il capitano, preparati che domani devi andare'. 'Ma io vado anche adesso!'". Non c'è molto tempo per piangere i campioni: la prima partita della nazionale, con l'Austria, è a sole due settimane dalla tragedia. "Il Torino dava sette, nove, a volte dieci giocatori alla nazionale. E quindi la dovettero rifare completamente - racconta Pandolfini - con i pochi che già ne facevano parte: Boniperti, Cappello, Carapellese". Ci fu poi da scegliere come arrivare ai mondiali in Brasile, aereo o nave. "La federazione ha creduto opportuno, giustamente, andare per mare. Però partecipare a una coppa del mondo con una preparazione di 15 giorni su una nave..."

La nuova nazionale

Ferruccio Novo da presidente aveva costruito pezzo dopo pezzo il Grande Torino; ora viene chiamato a Amedeo Amadei, centravanti della Roma, nel suo forno di Frascati - Foto di Matteo Angeliniformare e allenare la nuova nazionale, con giocatori d'esperienza e giovani promettenti. Al mondiale andranno: Amadei, Annovazzi, Blason, Boniperti, Campatelli, Cappello, Caprile, Carapellese, Casari, Fattori, Furiassi, Giovannini, Lorenzi, Magli, Mari, Moro, Muccinelli, Pandolfini, Parola, Remondini, Sentimenti, Tognon. Amadei ha ventinove anni, Fattori ventotto, Pandolfini ne ha ventiquattro e Casari, terzo portiere di quella spedizione, è anche lui ventottenne. Il capitano è Riccardo Carapellese, attaccante approdato al Torino dopo Superga, e in avanti con lui c'è Gino Cappello, una carriera quasi per intero al Bologna - "un lunatico, ma che metteva la palla in tasca", ricorda Pandolfini. Giampiero Boniperti, che guiderà la Juve prima dal campo e poi come presidente, non ha ancora 22 anni ed è il giovane talento della squadra. Altro juventino è il difensore Carlo Parola, "un gran signore, anche in campo", quello della rovesciata delle figurine Panini - peccato che a quei mondiali furono proibite proprio le rovesciate. Ma fra i compagni della nazionale ce n'è uno di cui ci parlano tutti: Benito Lorenzi, attaccante dell'Inter, detto "Veleno" - sarà un caso, ma venenum in latino significa tanto medicina quanto veleno, e Lorenzi in effetti, pur nelle sue ruvidezze e provocazioni sul terreno di gioco da cui il soprannome, durante i ritiri e in quel viaggio fu un vero e proprio antidoto contro la noia. "Era divertente - dice Fattori, che ci ha giocato insieme tanti anni nell'Inter -, sempre a far scherzi, non pensava mai alla partita. Poi quando va in campo non vuol perdere". "Mi ricordo - afferma Casari - un'Inter-Lucchese con Moro in porta. Lorenzi dopo aver segnato prende il pallone e glielo dà. Dice: 'To', la ciliegina'. Figurati i giornali! Il giovedì c'è allenamento della nazionale, correvamo sul campo, mi si avvicina e mi fa: 'Non ti preoccupare, a te non te la faccio'". Casari racconta anche la convivenza con gli altri due portieri di quel mondiale. Il titolare Lucidio Sentimenti IV, membro di una storica famiglia di calciatori, "giocava anche ala e tirava bene i rigori. Avevamo rapporti un po'... Una volta venne con la Juventus a Bergamo e sullo 0-0 l'arbitro fischia il rigore per loro. Viene su lui, segna e poi mi fa il gesto dell'ombrello. Io lo rincorro. Ostia, ho preso due domeniche di squalifica". E c'era poi Giuseppe Moro, la "vittima" di Lorenzi, portiere di grande talento, specializzato nei rigori, nel pararli però: "Era matto! Una volta siamo a fare l'allenamento con la nazionale a Genova. Dov'è Moro? Dov'è Moro? Non lo si trovava. Prende e arriva in elicottero".

Papa, paura e cornetti

Giuseppe Casari, portiere dell'Atalanta e del Napoli - Foto di Matteo AngeliniRacconta Gianni Brera nella sua "Storia critica del calcio italiano": "Aldo Bardelli ha paura a volare, e lo confessa pubblicamente. [...] Non è ancora trascorso un anno dalla sciagura di Superga: anche chi avrebbe pudore a dichiararsi fifone accetta che si raggiunga il Brasile per nave". Bardelli era una figura interessante: sia caporedattore del quotidiano bolognese Stadio, sia allenatore di questa nazionale insieme a Novo, che però raggiunse Rio direttamente in aereo. Si parte da Napoli il 3 giugno, dopo i saluti a Roma di tutte le istituzioni, Andreotti e Papa compresi. A tal proposito gira una leggenda, che Casari di fronte a Pio XII, invece di baciare l'anello, gli avrebbe semplicemente stretto la mano dicendo: "Piacere, Casari!". "So chi l'ha messa in giro quella voce: il Salvi, giocava con me ala sinistra a Bergamo. Figurati se non so il cerimoniale!". A Napoli il sindaco consegna gobbetti d'avorio, corni di corallo, piccoli ferri di cavallo: a ognuno un portafortuna anche se nessuno dei presenti se lo racconta. La partenza invece è rimasta impressa: chi ricorda il sogno realizzato, chi la folla accorsa. "Porca miseria! - dice ridendo e trasognato Pandolfini, che rivive il suo entusiasmo di ragazzo - Era tutto bello, il molo di Napoli era come il molo di New York. Andare a un mondiale, sono cose bellissime da ricordare anche nelle sconfitte". Casari: "A Napoli è stato uno spettacolo. Tutti volevano l'autografo. Poi siamo partiti con 'sta nave piccolina", la motonave Sises, di proprietà degli Agnelli.

Il (tipico) collegio galleggiante

A sessant'anni di distanza quel viaggio sembra irreale e mitico, forse più di quanto i suoi protagonisti siano Osvaldo Fattori, mediano dell'Inter, nel giardino della sua casa di Appiano Gentile - Foto di Matteo Angelinidisposti a riconoscere e rievocare. Come passavano il tempo sopra quella nave "piccolina"? "Giocavamo a carte, e che dovevamo fare?!" sbotta abbastanza contrariato Amadei, che avrebbe preferito, come tutti coloro che abbiamo intervistato, andare in aereo. Come si allenavano? "La stampa disse che giocavamo a pallone, ma quando mai! Non facevamo altro che allenamenti con la palla medica. Che poi in nave non c'erano nemmeno i giornalisti!". Amadei non stima particolarmente la categoria, e forse per questo ha dimenticato che a bordo c'erano Gianni Reiff e Nino Oppio, che via cablogramma inviavano giornalmente le loro cronache al Corriere dello Sport e al Corriere d'Informazione. Oltre a loro c'era anche Aldo Campatelli, membro di quella nazionale e dell'Inter, che raccontava quel viaggio per La Stampa dal punto di vista di un giornalista-giocatore. Nella tappa a Las Palmas, alle Canarie, Reiff inviò per posta aerea un articolo al suo giornale, superando così la censura che la federazione aveva imposto su tutti i cablogrammi. Quel pezzo racconta, dopo soli cinque giorni di navigazione, lo spaesamento dei giocatori e l'insinuarsi del dubbio, che all'arrivo diventò certezza, di aver sbagliato ad andare in nave, non solo per il complicarsi della preparazione atletica. Fattori: "Una volta il mare si è scatenato. Ho pensato: qui finisce che affondiamo!". Lo stare attenti al cibo, gli allenamenti e la necessità di passare il tempo, caratteristiche di tutti i ritiri, dovevano lì sottostare alle condizioni del mare, del viaggio e della nave. Il ponte era troppo piccolo "ma bisognava pur allenarsi - racconta Fattori -, e tante volte il pallone puff, se ne andava via in mare. Il tempo non era bello ma neanche brutto, e però lo sentivo ugualmente e non potevo mangiare. D'altronde la Sises non era una grande nave, si ballava anche per quello".
Molti giocatori fin da subito cominciarono a ingrassare. "Io ho preso 3 chili in quindici giorni - dice Pandolfini, che ricorda di aver sempre sofferto le rigide diete da atleta - ma così anche altri. Che poi c'era chi rimaneva ancora tranquillo e chi aveva un po' perso la testa e al primo pallone che gli capitava, pum!, lo buttava in acqua". Tutti ricordano l'immagine dei palloni che cadevano nell'oceano (tranne Amadei che, come visto, nega proprio che ci fossero) e da qui nasce molto della leggenda di questa storia. Dalla stampa abbiamo saputo che in effetti i palloni c'erano ma, conferma Casari, solo da pallavolo. Finirono comunque molto presto, "Ne avevamo cento - ricorda Pandolfini -, andarono tutti in mare ai delfini che ci seguivano". I giocatori si diedero così alla boxe, al ping pong, al lancio di cerchietti, mentre continuava la strana vita di bordo. "Al mattino trovavamo dei pesci volanti sul ponte - ricorda Casari -. Una cosa favolosa. Ai due piani di sotto c'erano gli emigranti, che non potevano venir su neanche a vederci per via di dieci membri della federazione che controllavano". Dirigenti che però allo stesso tempo parteciparono ai molti scherzi di quel viaggio. I cablogrammi raccontano del capitano Carapellese calato in acqua a toccar la fantomatica linea dell'equatore che si diceva portasse fortuna; di feste in maschera, fra cui una con il dirigente Berretti - l'incaricato della censura - vestito da Nettuno ad officiare un processo con al suo fianco giannizzeri e regina interpretati dai vari membri della squadra; di un finto telegramma, architettato ai danni di Berretti da Reiff e Oppio, con cui la federazione intimava il ritiro dalla competizione e l'immediato ritorno della nave. D'altronde altre squadre spaventate dal viaggio, come la Francia, avevano già deciso di non partecipare a quei mondiali. L'atmosfera è quella di un "collegio galleggiante", come scrissero i giornali, ma nella memoria dei nostri intervistati non sembra quasi esserne rimasta traccia; i ricordi vanno essenzialmente alla cattiva condizione atletica cui li ridusse la nave e a come questo influì sul mondiale che stavano per giocare. D'altronde l'unico allenamento a terra in due settimane fu quello di Las Palmas. Amadei ne parla come di "uno schifo", mentre Pandolfini e gli altri ricordano tutti la grande prestazione di Cappello: "Fece 3-4 gol. Il difensore Parola addirittura andò via dal campo, ché l'aveva ubriacato. I giornali scrissero, o Bardelli [il giornalista-allenatore, ndr] fece scrivere, che se persisteva quella forma avrebbe vinto da solo. Non beccò palla la prima partita!".

Ributtati in mare dalla Svezia, anzi in aereo
Egisto Pandolfini, centrocampista della Fiorentina, nel giardino della sua casa a Lastra a Signa - Foto di Matteo AngeliniPrima dell'arrivo festoso a Santos si fa tappa a Rio, accolti da moltissimi italiani sulle barche davanti al porto; dopo neanche cinque giorni si debutta, distrutti dal viaggio, il 25 giugno contro una Svezia con molte riserve che ci batte 3 a 2. La formazione esce da litigi, "furiosi" secondo Brera, fra Novo e Bardelli, e scelte legate più al calciomercato, almeno secondo la stampa e il ricordo dei nostri giocatori, tutti in tribuna visto che all'epoca non c'erano cambi. Fattori: "Pensavo di esserci, perché me lo dicevan gli altri. Anche Amadei è stato fuori mentre era da far giocare". Per la seconda partita la squadra viene rivoluzionata: Amadei è in campo con Fattori e Pandolfini. Ci sono 6 giorni di preparazione in più, ma si gioca quando siamo già eliminati, il 2 luglio contro il Paraguay, che 3 giorni prima aveva pareggiato 2 a 2 con la Svezia. Le gambe stanno meglio e si vince inutilmente 2 a 0, gol di Carapellese e Pandolfini (al debutto in nazionale), che non doveva nemmeno giocare. "Quando a pranzo han dato la formazione, e non c'ero, non ho retto e son scappato a piangere in camera. Sento bussare, arrivano i dirigenti e poi tutta la squadra, e mentre parla l'allenatore fa il mio nome e dice 'Giochi tu, è meglio tatticamente'. Io ero sul lettino che ancora mi asciugavo le lacrime! Poi in campo ebbi fortuna. Ero un corridore più che un tecnico, il gol che feci era ad inizio 2° tempo e con la poca preparazione ero già stanco; Carapellese fa un cross, arrivo, quando uno è stanco che fa? ci picchia dentro. Poteva finire alla bandierina, e invece va nel sette della porta. 'Gran gol di Pandolfini', dissero, ma son combinazioni che nel calcio capitano e che molti raccontano diversamente". A questo punto si ha la sensazione di una sorta di "si salvi chi può, ognuno per la sua strada". Per molti la decisione di tornare in aereo era già stata presa nel viaggio di andata. "L'unico che si impuntò - ricorda Amadei - fu Lorenzi. È tornato in nave, dopo un mese a passare da una nave all'altra e una sosta in Francia con cui si giocò tutte le vacanze!".

Quel Mondiale lo vince l'Uruguay contro il Brasile, nella sorpresa generale e nel lutto di una finale persa in casa. La nostra nazionale esce invece malamente, ma si continuerà a raccontare la storia del viaggio della Sises, della tragedia che l'aveva preceduto, degli allenamenti sul ponte e dei palloni che cadevano in mare ai delfini. Come ci ha detto Pandolfini, le avventure sono belle cose da ricordare, anche nelle sconfitte. Anche perché ogni tanto le storie delle sconfitte sono più belle di quelle delle vittorie.

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