CASTELFRANCO EMILIA (MO) - "I Mondiali Antirazzisti sono un esempio di integrazione attraverso lo sport". Parola di Cécile Kyenge Kashetu. Non una frase di circostanza per una donna che conosce bene la manifestazione Uisp cui aveva partecipato, prima di essere ministra all'integrazione, come rappresentante dei migranti d'Italia in veste di portavoce della Rete Primo Marzo. Eppure, se volessimo definire con una sola espressione i Mondiali Antirazzisti, prima di scomodare la "lotta alle discriminazioni" e la "conquista dei diritti civili", forse dovremmo parlare semplicemente di una festa. E non vuol essere una considerazione riduttiva, tutt'altro. Perché ciò che richiama migliaia di ragazzi, che li convince a rimanere nelle tende, al caldo di luglio, per cinque giorni, sottraendo tempo a esami, lavoro e vacanze, non sono i dibattiti pomeridiani - intendiamoci, interessanti e ricchi di idee - sui diritti di genere o sulle conseguenze del terremoto ma il clima di festa che va al di là anche dello sport, dei tornei e dei concerti.
Mi spiego. Se i Mondiali fossero solo la somma di questi tre elementi - sport, incontri su tematiche sociali e musica - probabilmente non andrebbero avanti da diciassette anni coinvolgendo così tante persone dall'Italia e dall'estero. Il torneo di calcio è un campionato scalcinato, una specie di maxi torneo scapoli-ammogliati, ai dibattiti partecipano mediamente trenta persone (con picchi di 100 se si parla di ultras o di 250 in presenza della ministra), e la sera, sul palco, non salgono certo i Rolling Stones. Mi si obietterà: "Però è tutto gratis". Dipende. Per chi viene da Francoforte? Per uno studente fuorisede? Insomma, perché allora i Mondiali continuano ad avere successo, a essere considerati un appuntamento fisso dell'estate in Emilia-Romagna? Credo che la risposta sia da cercare proprio nel clima di festa che si avverte per cinque giorni nei campi da gioco così come nella "piazza" dei dibattiti. Una festa che è poi il piacere di stare insieme.
Ecco allora che nessuno bada granché ai risultati del torneo e ogni tanto si sente un altoparlante che "convoca" qualche squadra per un'amichevole improvvisata, mentre i "professionisti", scoperto il divieto sulle scarpe coi tacchetti, non si scoraggiano e giocano in infradito e stivali. Intanto i dibattiti diventano quasi chiacchierate tra amici - forse col rischio che si è già un po' tutti d'accordo - ma subito qualche coro che si alza dalle panche del ristorante vicino ti ricorda che, sotto lo stesso capannone, vedi assessori a sport e cultura e gruppi ultras da tutta Europa. E sempre gli ultras, mescolati tra loro, sono i tanti improvvisati baristi che si danno consigli sul modo di spillare una birra "come si deve" mentre nei concerti non c'è bisogno di aspettare i 99 Posse ma si balla e si canta anche con la cover band che suona "Monna Lisa" di Graziani. Ed è così che ogni anno i Mondiali raggiungono - con tutti i loro limiti - quell'obiettivo sociale, civile di "lotta alle discriminazioni". Insomma, dopotutto, aveva ragione la ministra.