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La ricerca della prestazione assoluta sta snaturando il parkour

L'allarme parte da Antonio Calefato, formatore Uisp e praticante. Ecco le vere caratteristiche dell’attività motoria più libera e meno competitiva del mondo

 

Parkour - un ponte tra le attività motorie e le pratiche di vivibilità nella giungla urbana, è l’articolo pubblicato recentemente sul Journal of Physical Education and Sport, e firmato da Antonio Calefato, Pietro Mango e Franco Bruno Castaldo. La rivista europea che raccoglie articoli scientifici su attività motorie e sportive, ha scelto questo approfondimento sul parkour presentato alla conferenza “Outdoor education 2020”, organizzata dall’Università di Bolzano, in cui sono state presentate ricerche scientifiche di relatori internazionali. Tra gli autori di questo interessante studio c’è Antonio Calefato, formatore Uisp, laureato in scienze motorie, esperto e praticante di parkour, che in questi giorni ha potuto riprendere i corsi per bambini e ragazzi, con la sua associazione, Activita. “Con le recenti riaperture sono ripartite le nostre attività - racconta Calefato - noi operiamo in Puglia, Marche e Abruzzo, e durante questi mesi quando è stato possibile i corsi si sono sempre svolti. Nei periodi di zona rossa abbiamo proseguito le lezioni individuali all’aperto, che sono rivolte a persone con bisogni speciali, come ragazzi con autismo, per i quali prevediamo percorsi di inclusione specifici prima dell’inserimento nel gruppo, dove vengono seguiti da un tutor fino a quando non sono perfettamente integrati. Anche il gruppo svolge un training specifico per essere pronto ad accogliere persone con esigenze diverse”.

Infatti, nell’esperienza del parkour Uisp, portata avanti ormai da oltre dieci anni da Calefato, questa è una pratica sportiva veramente per tutti: esistono corsi per bambini dai 3 anni in su, suddivisi per fasce d’età, mentre dai 15 anni si allenano tutti insieme. Per il futuro c’è il progetto di strutturare un percorso per adulti e anziani, partendo dalla particolarità del parkour, un’attività motoria che promuove educazione alla salute e rappresenta uno strumento per veicolare abilità trasversali adatte a tutti, in tutte le fasi della vita

“Il nostro approccio a questa attività motoria si basa su principi etici e valoriali che sono del tutto coerenti con la mission Uisp - spiega Calefato - si tratta di una pratica non competitiva che ha l’obiettivo di adattare il proprio corpo e il movimento all'ambiente circostante. Lo scopo del nostro movimento è spostarsi all’interno di un ambiente, ma per farlo il praticante deve mettere in discussione se stesso e l'ambiente che lo circonda, elaborando delle soluzioni creative per cercare un percorso alternativo. Per iniziare a muoversi si deve partire dalla consapevolezza di quello che si è in grado di fare, ogni persona ha possibilità diverse in base all’allenamento, all’età ed altre caratteristiche: la pratica del parkour non è identificabile con una prestazione di tipo assoluto ma con un’attitudine, mettere la mia persona in relazione con l’ambiente. Per questo secondo noi è per tutti: le persone che vogliono provare devono semplicemente accettare di mettersi in discussione, capire i propri limiti ed elaborare una risposta di tipo motorio. Per fare questo bisogna lavorare sulle lifeskills, abilità di vario genere utili in diversi ambiti della vita, che vengono stimolate dalla pratica del parkour, rendendolo uno strumento estremamente educativo, valido per tutte le età”. 

Questo approccio è condiviso nel mondo del tuo sport?
“Purtroppo in molti ambienti la pratica sta prendendo una piega molto più agonistica e secondo me è un grande passo indietro rispetto alla filosofia della disciplina, a cui si sta applicando un’attitudine che è del tutto estranea alla sua natura. Io non posso accettare una interpretazione del parkour come disciplina olimpica, perchè perderebbe l'opportunità di essere un'attività per tutti, diventando una disciplina come tutte le altre. Per come la intendiamo noi è un modo per riappropriarsi degli spazi, dei corpi, delle relazioni, è un’attività inclusiva, basata sull’accettazione e il rispetto dell'altro, renderla competitiva sposta l’attenzione sulla performance assoluta e la ricerca tecnica ossessiva. Invece, attraverso il parkour, noi trasmettiamo la cultura della salute attraverso il movimento, intesa a 360 gradi, non solo biomedica, ma come appropriazione della propria esistenza e ricerca della felicità, quindi della salute fisica ma anche mentale ed identitaria. Vogliamo tenerci alla larga dalla deriva meccanicistica delle discipline agonistiche, per cui l’obiettivo è costruire un campione guardando al corpo come consequenzialità di causa ed effetto: in quel caso l’allenamento tende a raggiungere il miglior risultato e massimizzare la performance, mentre nel parkour la performance è personale, non ha riferimenti assoluti, il miglioramento non è considerato come obiettivo ma come positivo effetto collaterale. Nel nostro mondo vengo accolto non perchè sono bravo, ma solo perchè ho preso la decisione di impegnarmi in questa attività e tutti possono provare, non ci sono limiti fisici: mettersi in discussione, impegnarsi, vivere lo spazio urbano liberamente, sono le caratteristiche su cui si basa il nostro approccio. La nostra soddisfazione non viene dal superare un ostacolo più alto di quello del mio compagno, ma dal fare ogni giorno un passo in più: per questo l’Uisp è la nostra casa ideale, perchè valorizza lo sport di base e sta facendo uno sforzo molto interessante sull’evoluzione delle discipline, affinchè non siano più ingabbiate in modelli anacronistici di tipo agonistico. Infatti, tutti gli sport possono essere svolti con un approccio votato all’educazione alla salute. Noi riconosciamo e apprezziamo lo sforzo dell’Uisp in questa direzione, sono sicuro che proseguendo con la formazione e l'informazione, confermerà la forza innovatrice che la caratterizza da sempre. Noi vogliamo contribuire a questa innovazione, per ora stiamo spargendo dei semi, attraverso la riappropriazione degli spazi urbani in cui le persone si incontrano e si concretizza il loro tempo libero, purtroppo in molte zone d’Italia incontriamo degli ostacoli, perchè quasi sempre questi luoghi non sono progettati per l’aggregazione”.

 Quali difficoltà incontrate nell’utilizzo degli spazi urbani per praticare il vostro sport?
“Le amministrazioni non sono interessate a costruire spazi aggregativi e questo elimina la possibilità di viverli in libertà. Trovare un modo sano e proattivo di vivere la città consentirebbe ai giovani, i cittadini del futuro, di acquisire consapevolezza su cosa significhi stare in uno spazio e prendersene cura, creando cittadinanza attiva e facendo educazione ambientale. Per ottenere questo risultato, però, le amministrazioni devono assumersi una responsabilità: promuovere interventi che non abbiano effetti immediati ma negli anni a venire, mentre la prospettiva di solito è molto più breve, manca lungimiranza. Mi fa piacere constatare che in alcune località questa mentalità sta nascendo anche se incontra resistenze pratiche, tra le altre anche quelle legate all’idea diffusa del pericolo. La cultura del nostro Paese immerge le nuove generazioni, quelli che saranno gli adulti del futuro, in un contesto estremamente protetto, a scuola, in famiglia, nelle piazze. Questo ambiente ovattato non permette ai giovani di maturare le loro abilità trasversali, i nostri adolescenti non hanno manualità, non sanno gestire lo stress e la paura, sviluppano poca creatività, non hanno strumenti per prendere decisioni e risolvere problemi, non sanno organizzare le proprie risposte. E le amministrazioni stesse non sono disposte a prendersi rischi, quindi preferiscono progettare spazi urbani anonimi, che non vengono vissuti nè fatti propri dalla cittadinanza”. 

In effetti, la pericolosità è un’altra caratteristica che viene imputata al parkour, cosa ne pensi?
“E’ un’altra delle incomprensioni a cui siamo soggetti. Ogni azione o scelta comporta dei rischi e dei pericoli, ma è fondamentale capire la differenza: il pericolo esiste sempre ma il rischio dipende dalle persone e può essere limitato dalla responsabilità individuale. La pratica del parkour è pericolosa come quella di tanti altri sport, il rischio è sempre legato all’attitudine della persona, al riconoscimento e accettazione dei propri limiti, alla rinuncia alla competizione e al raggiungimento della performance. Infatti, nel nostro mondo si è bravi quando si impara ad abbattere i rischi, a gestire il movimento senza procurarsi infortuni. Allo stesso tempo, invece, le life skills che si acquisiscono sul campo possono essere portate in tutti gli ambiti della vita, sono abilità utili e applicabili a tutte le esperienze. Ad esempio, la gestione dello stress è la stessa nel salto di un muretto e nell’esame universitario, praticando imparo a relazionarmi con la paura in ogni occasione in cui la incontro. Gli operatori sportivi sono soggetti educanti quindi devono porsi il problema di questi aspetti della formazione e il parkour, nella sua vera essenza, lo fa: fornisce una cassetta degli attrezzi con cui ognuno può costruire le sue abilità e ripensare al modo di stare al mondo. In questo senso la riappropriazione degli spazi urbani gioca un ruolo strategico, ma è necessaria la collaborazione delle amministrazioni locali. Nella mia città, Trani, ci abbiamo messo 15 anni a farci conoscere, ora lavoriamo nelle scuole, abbiamo un dialogo con assessori e sindaci, facciamo attività per la strada e ci sentiamo accolti e riconosciuti per il lavoro che facciamo. Siamo riusciti a far passare un messaggio su come possiamo vivere le nostre città in modo diverso e sul fatto che scelte coerenti in questo settore hanno anche una importante ricaduta economica. Avere cittadini in salute è un guadagno della collettività, l’inattività fisica è la quarta causa di morte al mondo, ma la rivoluzione deve partire da chi prende le decisioni, le istituzioni, le amministrazioni nazionali e locali. Il parkour usa lo spazio urbano, lo reinventa, lo adatta alle esigenze delle persone, e le amministrazioni devono cominciare a prendere su di sé la responsabilità dell’educazione alla salute dei cittadini, mettendo in discussione i modelli acquisiti e immaginandone dei nuovi, anche usando la nostra esperienza”. (Elena Fiorani)

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