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"Lingua e genere, l'origine di un dibattito", di Monia Azzalini

In coincidenza con i Giochi di Tokyo, pubblichiamo questo approfondimento a cura della ricercatrice dell'osservatorio di Pavia, Università Ca’ Foscari di Venezia

 

«Perché il rapporto di potere tra i sessi cambi in senso veramente paritario si deve anzitutto acquistare consapevolezza delle varie forme in cui la disparità viene mantenuta. La lingua che si usa quotidianamente è il mezzo più pervasivo e meno individuato di trasmissione di una visione del mondo nella quale trova largo spazio il principio dell’inferiorità e della marginalità sociale della donna». (Elena Marinucci, in Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, 1987, 11)

 

1. Introduzione: lingua e genere, l’origine di un dibattito
Le prime riflessioni sulla relazione fra lingua e pari opportunità di genere nascono a metà anni Settata del secolo scorso, negli Stati Uniti, con la pubblicazione di Language and Woman’s Place di Robin Lakoff (1973, 1975). Coniugando teorie femministe e teorie linguistiche dell’epoca, questo studio mette in evidenza per la prima volta come la marginalità e la mancanza di potere delle donne sia riflessa sia nel modo in cui ci si aspetta che parlino le donne, sia nel modo in cui si parla delle donne e pone le basi per un’ampia produzione scientifica su lingua e genere, che riguarda ormai molte lingue del mondo e coinvolge non solo l’ambito accademico, ma anche quello istituzionale, professionale e della società civile. In Italia, è il Governo Craxi (1983-87), con la Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, a dare inizio alla riflessione sul fenomeno del sessismo linguistico, affidando ad Alma Sabatini l’incarico di svolgere una ricerca e redigere delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (Sabatini 1986, 1987). L’interesse della Presidenza del Consiglio dei ministri per la lingua derivava dalla necessità riconosciuta che la società italiana si liberasse «dai residui pregiudizi nei confronti delle donne […] non sempre riconoscibili, perché sono spesso nascosti e camuffati sotto forme di apparente valore oggettivo, e sono trasmessi, perpetuati e avvalorati attraverso la lingua, in modo spesso subdolo e ripetitivo» (Sabatini 1987, 23). Alma Sabatini realizzò due ricerche sul linguaggio dei media e degli annunci di lavoro pubblicati nei quotidiani che dimostravano come l’uso dell’italiano fosse (e purtroppo sia ancora) caratterizzato da un generale “androcentrismo” e da una serie di specifiche “disimmetrie” fra parole ed espressioni usate per riferirsi alle donne e parole ed espressioni usate per riferirsi agli uomini. Sulla base di questi risultati, Sabatini stilò le Raccomandazioni che furono pubblicate nel 1986 e poi confluirono nel noto volume dal titolo Il sessismo nella lingua italiana (1987), rivolto principalmente al mondo dell’informazione, e ristampato nel 1993 con lo scopo specifico di fornire alla scuola uno strumento di lavoro: 
«L’idea di trasformare completamente la lingua italiana in una lingua “non sessista” non è stata realizzata, né d’altronde era immaginabile che lo fosse. Lo studio ha avuto comunque l’innegabile merito di avere sollevato il problema e di averlo reso presente soprattutto a chi con il linguaggio lavora. Il mondo della scuola, ad esempio, gli insegnanti più attenti a queste tematiche, hanno trovato in questo libro un prezioso strumento di lavoro, che infatti ci viene continuamente richiesto: a loro in particolare è indirizzata questa ristampa». (Tina Anselmi in Sabatini 1993, 3) 

Forse perché realizzata su iniziativa istituzionale, e non accompagnata da un dibattito pubblico condiviso, la questione della relazione fra lingua e pari opportunità, in Italia, è però rimasta a lungo marginale nell’agenda culturale del paese, confinata nel mondo accademico più vicino ai reverberi degli studi esteri e internazionali. I media, in particolare le testate giornalistiche, a cui il direttore dell’ANSA Sergio Lepri chiedeva un “impegno convinto” nel suo contributo al volume dell’87, se ne sono sostanzialmente disinteressati e hanno, per esempio, consolidato l’uso di nomi maschili per designare singole referenti donne in quei ruoli e quelle professioni di prestigio che già a fine anni 80 cominciavano a essere svolte da donne, e Sabatini raccomandava di declinare al femminile. L’uso della forma maschile per designare donne, che resiste soprattutto per posizioni apicali o settori storicamente appannaggio maschile, come lo sport, si discosta infatti dal sistema grammaticale italiano e al contempo preserva relazioni gerarchiche fra i generi, consolidando una visione del mondo in cui ciò che viene nominato al maschile gode di maggior prestigio rispetto a ciò che viene nominato al femminile. Il tema è rientrato nell’agenda politica nell’ultimo decennio, in seguito a sollecitazioni “dal basso” delle associazioni femministe e più in generale della società civile e alla battaglia personale intrapresa dall’onorevole Laura Boldrini con una lettera inviata, in qualità di Presidente della Camera, a deputate e deputati esortandole/i a richiamare, nei loro interventi, le cariche e i ruoli istituzionali «correttamente, secondo il genere proprio della persona cui essi si riferiscono». La lettera, resa pubblica in occasione della Giornata internazionale della donna nel 2015, fu ripresa da diverse testate giornalistiche e postata dalla stessa presidente sul suo account Twitter, riscuotendo un immediato interesse mediatico con interventi anche molto accesi sia di sostegno sia di violento attacco.
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2. L’androcentrismo e le dissimmetrie di genere da evitare
Probabilmente per il modo in cui è rientrato nell’agenda politica e culturale del nostro paese, il problema di un uso dell’italiano paritario e inclusivo (gender-fair) è attualmente concentrato su uno dei macro-fenomeni di sessismo linguistico individuati da Alma Sabatini: la tendenza a declinare alcuni agentivi, ovvero nomi che indicano professioni, mestieri, titoli o cariche, al maschile anche quando riferiti a donne. Anche questo contributo sarà focalizzato su questo fenomeno, per tre ragioni: primo, perché, come appena sottolineato, è attualmente l’argomento più dibattuto in Italia; secondo, perché la portata discriminatoria di questo fenomeno è più subdola e meno facilmente individuabile rispetto a quella di altri; terzo, perché il mondo dello sport sta vivendo un momento di apertura e inclusione delle donne in molte discipline un tempo riservate agli uomini, ma è sfornito, per motivi banalmente riconducibili alla storia, di parole adeguate a rappresentare le donne in modo paritario rispetto agli uomini. Parole che si possono tuttavia trovare facilmente, avendo conoscenza e consapevolezza di qual è la struttura della lingua italiana, ovvero quali sono le “norme” grammaticali che la regolano, e come queste norme possono essere negoziate, cioè socialmente condivise, rappresentando in modo adeguato le nuove identità femminili. Prima di entrare nel merito della questione centrale di questo saggio, vorrei però riepilogare sinteticamente i fenomeni di sessismo linguistico rilevati da Alma Sabatini nella sua ricerca sulla stampa italiana: sei quotidiani nazionali, più due settimanali generalisti e due riviste femminili, pubblicati nel lontano 1984. Si tratta di fenomeni che in modo più o meno accentuato sopravvivono al tempo, come dimostrano le (ahimè, poche) ricerche che hanno replicato i lavori di Alma Sabatini (Burr 1995, Pescia 2010, Cavagnoli 2013, Robustelli 2014, Formato 2016, Nardone 2016, Azzalini 2021). Poiché questo contributo intende fornire qualche consiglio utile a un uso della lingua italiana che sia paritario e inclusivo, riassumerò di seguito le forme di sessismo linguistico latente o palese attestate nella ricerca di Sabatini, in una tabella contenente anche una serie di esempi e di alternative possibili, sperando di aver scelto una modalità di esposizione utile a facilitare la comprensione di chi legge, in particolare per chi affronta per la prima volta queste tematiche. Eviterò la classificazione usata da Alma Sabatini, in particolare la distinzione fra disimmetrie grammaticali e disimmetrie semantiche, messa in discussione sin dal primo lavoro di revisione dei lavori si Sabatini (Cardinaletti e Giusti 1991), e citerò a titolo di esempio non gli esempi originali, ma usi linguistici recenti, trovati con una libera ricerca online, eseguita tramite Google search, il 18 marzo 2020.

3. Il genere come categoria grammaticale e semantica
Venendo ora al tema centrale di questo contributo, vediamo quali sono le caratteristiche intrinseche, ovvero strutturali dell’italiano. L’italiano è a lingua dal genere marcato. Tutti i nomi hanno un genere, femminile o maschile, mai neutro, a differenza di altre lingue come l’inglese, o il latino. A seconda della classe di appartenenza, i nomi presentano segnali morfologici di genere più o meno trasparenti, nel finale del nome. Oltre il 70% del lemmario italiano è composto dalla classe con i femminili in -a/-e (singolare/plurale) e maschili in -o/-i (Thornton et. al 1997). Le altre classi includono nomi epiceni, detti anche ambigenere o bigenere, con singolari e plurali uguali per i due generi (es. il cantante/la cantante, i cantanti/le cantanti), nomi semiepiceni con uguale singolare e diverso plurale per i due generi (es. il/la regista, i registi/le registe), nomi con un genere al singolare e due diversi generi al plurale (il muro, le mura, i muri) o viceversa (es. la eco, lo eco, gli echi), e nomi con maschile al singolare, femminile al plurale (es. l’uovo, le uova). Infine, c’è una classe di nomi con radici diverse per i due generi; es. madre/padre, sorella/fratello, suora/frate, donna/uomo, ecc. In ogni caso, in italiano il genere grammaticale del nome si riflette nella declinazione di aggettivi, articoli, e verbi al participio passato. Quindi anche un nome ambigenere come cantante, per esempio, produce un accordo di genere in una frase del tipo: “La famosa cantante italiana è stata intervistata da una giornalista.” Ci si aspetterebbe che presidente, altro participio presente come cantante si comporti allo stesso modo. Invece siamo ancora a discutere se una donna che presiede una Camera del Parlamento si chiami il o la presidente. E raramente sentiamo presentare una dirigente come la dirigente. Ha senso sostenere che dirigente o presidente, ruoli di prestigio e potere, si declinino al maschile, mentre cantante, che sempre un ruolo è, ma di minor prestigio, si declina abitualmente al maschile o al femminile a seconda del genere di riferimento? Per rispondere a questa domanda, spostiamo la riflessione ai nomi con riferimento inanimato.
Il genere dei nomi che si riferiscono a entità astratte o oggetti dipende da proprietà morfologiche del nome stesso e non semantiche. Non c’è alcuna correlazione fra un nome di cosa, idea o sentimento o altra entità inanimata e il suo genere grammaticale, che è del tutto casuale. Per questi nomi, inoltre, il femminile e maschile, come generi grammaticali, sono assolutamente simmetrici e godono di pari dignità. Possiamo chiamare una luce che brilla in cielo astro o stella, senza che la nostra scelta abbia alcun valore di prestigio, potere o altro. Il genere grammaticale dei nomi con riferimento umano ha invece una relazione con il genere biologico-sociale del/la referente: mamma indica una donna nel suo ruolo genitoriale, papà un uomo nel medesimo ruolo; l’espressione la mia amica può fare riferimento a una bambina, a una ragazza, a una donna, ma non a un bambino, o a un ragazzo, o a un uomo, per indicare il quale useremo più propriamente il mio amico.

4. La resistenza culturale all’uso dei nomi femminili
La lingua italiana ha una struttura grammaticale, intrinseca, funzionale a nominare le donne in modo paritario rispetto agli uomini, anche nel caso di professioni e ruoli storicamente maschili, e magari non (ancora) attestati nei dizionari, attraverso la regolare declinazione secondo le classi nominali sopra elencate. Come notano Cardinaletti e Giusti (1991) in quello che è stato il primo lavoro di revisione dei lavori di Sabatini, il problema va principalmente attribuito a una resistenza culturale a riconoscere la presenza delle donne nei luoghi di potere o tradizionalmente appannaggio maschile. Una resistenza che produce incertezze e continue oscillazione fra forme femminili e maschili per indicare alcune posizioni o professioni e una certa incoerenza negli accordi di genere che contribuisce a rendere l’identità femminile instabile. Questi fenomeni linguistici sono ascrivibili a diverse concause che si rafforzano a vicenda, fra le quali si possono individuare: una diffusa mancanza di metacompetenza linguistica sulla natura del linguaggio e sulla sua funzione nella costruzione delle identità (non solo di genere), la mancanza di una politica linguistica unitaria e condivisa su scala nazionale, l’opposizione da parte di alcune donne autorevoli ad auto-definirsi al femminile (Azzalini e Giusti, 2019).

4.1 Competenza e metacompetenza linguistica
Il filosofo Wittengstein scriveva nel Tractatus logico-philosophicus «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» (1968, 63). In effetti, una lingua è più che un semplice mezzo di comunicazione, è una capacità cognitiva individuale piuttosto complessa. Attraverso la lingua, o meglio le lingue che usiamo, e i suoi diversi registri, definiamo il “nostro mondo” e il “nostro mondo”, comprese le nostreidentità, è delimitato da esse, in una relazione dinamica e parzialmente mutevole nel corso del tempo. Apprendiamo la lingua madre, ovvero la lingua a cui siamo esposte/i alla nascita, in modo spontaneo, nei primi anni di vita, durante un processo che si conclude, in condizioni non patologiche, entro i 4-5 anni. Nella prima infanzia ne acquisiamo le strutture fonologiche, sintattiche, lessicali, semantiche e  pragmatiche. Il lessico rimane aperto all’acquisizione di nuove parole, ma la sintassi e la fonologia sono meno facilmente modificabili dopo il periodo “critico”, in genere l’adolescenza, oltre il quale è difficile rinegoziare la lingua madre così come apprendere una lingua straniera senza istruzione esplicita. Trascuro in questa sede l’approfondimento sulla “regola” del maschile plurale, che l’unica forma di “sessismo” sistemico della lingua italiana. Sin dall’infanzia, la lingua ha un’importante funzione nel costruire la nostra identità. Parlando una lingua ci identifichiamo con una comunità, la quale, a sua volta, ci identifica come parte o non parte di essa. A sua volta, la lingua, con le sue parole, le sue strutture morfologiche e sintattiche, compresa la declinazione e l’accordo di genere, definisce i “confini” culturali entro cui si fondano le nostre identità, inclusa l’identità di genere. Se dico o scrivo “sono italiana” mi identifico e vengo identificata come una persona adulta di sesso femminile, e non maschile, nata e cresciuta in Italia, e non in Germania, Inghilterra o altro. 
La metacompetenza linguistica è precisamente la conoscenza della natura biologica e sociale della lingua, del suo ruolo nella costruzione di identità, inclusa quella di genere, e del funzionamento delle sue strutture grammaticali, altrimenti apprese senza istruzione esplicita, con la semplice esposizione ai dati linguistici. Sulla base di metacompetenza  linguistica, è possibile osservare che l’uso di sostantivi maschili per cariche, professioni, mestieri e ruoli ricoperti da donne ha la sua origine in un atteggiamento culturale e sociale che viaggia in direzione contraria alla struttura grammaticale dell’italiano, lingua che attribuisce un genere semantico coerente rispetto al genere sociale ai nomi che si riferiscono a persone. Questo uso deriva evidentemente da pregiudizi sociali che la lingua, in quanto espressione di una visione socialmente condivisa, acquisisce e trasmette, “tradendo” la persistenza di relazioni di potere fra uomini e donne, ovvero veicolando in modo latente relazioni di subordinazione formalmente superate dal sistema legislativo italiano, ma di fatto sussistenti a livello sociale, culturale, e simbolico. Per quanto riguarda i nomi di prestigio, è evidente che la resistenza a declinarli al femminile è una questione di potere. Si pensi per esempio a un nome come professoressa che è normalmente utilizzato per insegnanti di scuola media o superiore, ma non in ambito accademico, dove prevale l’uso di professore. O a maestra, usato per indicare insegnanti di scuola elementare, ma non direttrici d’orchestra, per cui l’uso corrente è maestro. 

4.2 Politiche linguistiche in materia di nomi di ruolo e professioni ricoperte da donne
Le politiche linguistiche possono avere un ruolo importante nell’indirizzare l’uso di una lingua. Politiche linguistiche in senso paritario sono state fatte in molti paesi del mondo. Queste azioni hanno portato al consolidamento dell’uso di una lingua che include e rappresenta i generi in modo paritario. Una ricerca interessante che testa l’efficacia delle politiche linguistiche è stata per esempio condotta da Lorenza Pescia (2010) che ha analizzato l’italiano statale ticinese di tre quotidiani svizzeri (La Regione, Corriere del Ticino e Giornale del Popolo), mettendolo a confronto con l’italiano standard della stampa diffusa in Italia (la Repubblica e l’ANSA) e l’italiano elvetico dell’Agenzia telegrafica svizzera (ATS, con sede a Berna), verificando un uso più paritario e inclusivo maggiore in questi ultimi, per una maggiore vicinanza alla cultura tedesca, e poi nei quotidiani del Canton Ticino, dove nel 1995 sono state pubblicate le Tecniche per la redazione di atti ufficiali, in ottemperanza a quanto prescritto dalla consulente per la condizione femminile nominata dal Consiglio di Stato nel 1991: «il linguaggio normativo e amministrativo dovrà conformarsi ai principi della parità linguistica nei limiti e possibilità peculiari alla lingua italiana» (Pescia 2010, 61). In Italia, le politiche linguistiche sono rimaste limitate a linee guida di carattere locale (Robustelli 2012) o raccomandazioni non interventiste. Oltre alla già menzionata lettera dell’8 marzo 2015 alla Camera dei Deputati da parte dell’allora presidente on. Boldrini possiamo ricordare il più recente Piano nazionale per l’educazione al rispetto del MIUR (2017) voluto dalla ministra Valeria Fedeli e «volto a promuovere azioni educative e formative per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione, la prevenzione e contrasto del cyberbullismo», che vede l’uso paritario della lingua come cardine dell’azione educativa e formativa. Entrambi iniziative isolate e personali che, per quanto autorevolissime, non sono state sostenute da un’azione collegiale di governo o legislativa.
Perché delle politiche linguistiche possano essere incisive non possono essere fatte in solitudine o operate in ristretti ambiti istituzionali, necessitano di un’azione normativa di ampia applicazione, supportata dall’expertise delle istituzioni linguistiche, che in Italia non mancano, e accompagnate da un’adeguata campagna di motivazione nei media, nella scuola, e nei luoghi deputati. Il mondo dell’informazione si è speso negli anni più recenti per questa causa, con la pubblicazione di linee guida o pubblicazioni di simile valore come Tutt’altro genere d’informazione. Manuale per una corretta rappresentazione delle donne nell’informazione, a cura del Gruppo di Lavoro Pari Opportunità del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei giornalisti (2015), Donne, grammatica e media (Robustelli 2014) promosso dall’associazione GiULiA giornaliste, e patrocinato da INPGI, FSI, Ordine dei giornalisti del Lazio e della Lombardia, la quale ha di recente pubblicato anche il volume STEREOTIPI. Donne e media (2019), con due contributi specificamente dedicati alla lingua (Cavagnoli 2019, Dragotti 2019), e il Manifesto Donne Media e Sport, promosso insieme a UISP35. Forse tutto questo fermento porterà a un uso della lingua italiana più inclusiva e paritaria, grazie a una più diffusa metacompetenza
linguistica. Nel frattempo, occorrerà convincere le donne stesse ad autonominarsi al femminile, perché non tutte le donne condividono e testimoniano personalmente l’importanza di declinare al femminile la carica che ricoprono o la professione che svolgono.

4.3 La resistenza all’uso del femminile: da dove viene e perché è importante superarla
Diverse ricerche attestano che le forme femminili vengono rifiutate in Italia perché percepite come di minor prestigio rispetto ai corrispettivi maschili (Merkel 2012, 2016). In effetti ci sono nomi che testimoniano bene quanto la declinazione femminile possa avere minor prestigio rispetto a quella maschile. Oltre al già citato caso di  professore/professoressa, possiamo citare segretario/segretaria, che al femminile è tradizionalmente usato per indicare una persona impiegata in mansioni d’ufficio, mentre al maschile si riferisce a una persona con compiti di responsabilità, dirigenza o leadership, in un partito, sindacato o altra organizzazione. D’altra parte, come osserva Giuliana Giusti (2009) le parole che denotano categorie svantaggiate sono destinate a percorrere una “china peggiorativa” che spesso si conclude con il subentro di una nuova parola, la quale a sua volta ripercorre la stessa china fino a nuova sostituzione, si pensi a parole come negro, nero, di colore. Per fermare la china peggiorativa del genere femminile come genere di minor  prestigio occorre dare prestigio ai nomi femminili, utilizzandoli. Per altro, stando alle evidenze riportate dalla psicolinguistica e neurolinguistica, questa sembra essere la strada più utile per sfidare gli stereotipi latenti nell’uso della lingua. Molte ricerche dimostrano infatti che i nomi con riferimento umano attivano stereotipi di genere, su base lessicale, morfologica e semantica, e questi stereotipi vincolano l’accordo: per esempio doctor (dottore/dottoressa) in inglese è associato al genere maschile e genera l’aspettativa di essere preceduto o seguito da un pronome maschile, mentre infermiere/infermiera è associato al genere femminile e genera l’aspettativa di essere preceduto o seguito da un pronome femminile (Osterhout, et al. 1997). Le ricerche che approfondiscono questi meccanismi dimostrano che l’attivazione degli stereotipi è sensibile al discorso linguistico (il testo), al contesto extra-linguistico (la conoscenza del mondo sulla base della quale il significato di un nome viene interpretato) e anche alla morfologia del nome stesso, per le lingue come l’italiano con il genere marcato a livello morfo-sintattico.
Alcune indagini che sperimentano l’uso di una lingua gender-fair in lingue con genere grammaticale esplicito (come francese, tedesco, spagnolo e italiano) dimostrano come queste forme possono inibire l’attivazione di stereotipi di genere e, nei minori (bambine/i e adolescenti) attenuano i pregiudizi di genere sulle aspettative di carriera e sulle abilità professionali. Risultati che vanno in questa direzione emergono anche da un recente studio che dimostra come l’attivazione di stereotipi di genere per nomi di professione sia inibita in italiano proprio dai segnali morfosintattici che chiariscono il genere del/la referente (Ronca e Moscati 2019).

5. Conclusioni
A distanza di 30 anni dai lavori di Alma Sabatini, l’analisi offerta da molti studi che riflettono sull’uso della lingua italiana dimostrano come la grammatica italiana sia funzionale a rendere visibili le donne, e a rappresentarle in modo paritario rispetto agli uomini. Tuttavia, queste potenzialità intrinseche dell’italiano sono limitate da fattori socio-culturali che perpetuano un uso della lingua androcentrica e discriminante. D’altro canto, le ricerche che indagano gli effetti di una lingua gender-fair confermano quanto queste potenzialità possano essere efficaci non solo per riflettere l’avanzamento delle pari opportunità in tutti i settori, dalla politica allo sport, ma anche per promuovere attivamente un superamento degli stereotipi di genere, in particolare nelle giovani generazioni. In un paese che con un Gender Gap Index di 0,721 si posiziona solo al 63esimo posto su 156, nel ranking del World Economic Forum del 2021, sarebbe auspicabile una politica linguistica più interventista, che accolga le istanze della parità di genere come un’esigenza del paese nel suo complesso, piuttosto che come una rivendicazione ideologia o peggio ancora partigiana. Molti paesi che hanno  intrapreso questa strada hanno attuato con successo queste politiche. Nel frattempo, chiunque può adoperarsi per un uso paritario e inclusivo dell’italiano, promuovendo un mutamento dal basso. E laddove mancano le parole, basta un po’ di
metacompetenza linguistica per capire come crearle in modo coerente rispetto al sistema morfosintattico dell’italiano.
In Appendice, una tabella con regole ed esempi per la formazione dei nomi femminili nel mondo dello sport. (Monia Azzalini, Osservatorio di Pavia, Università Ca’ Foscari di Venezia)

Per appendice e riferimenti bibliografici scarica il saggio in formato pdf

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