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Rugby per tutti/ Stefano Di Puccio

Mio figlio Arno, che oggi ha 21 anni, gioca a rugby da quando ne aveva 6. Merito certamente anche mio, che da ex-giocatore ancora oggi innamorato di questo grande sport, speravo che se ne appassionasse. Io ho cominciato da adolescente fino a smettere trentaduenne, mentre lui ha avuto la fortuna di poter cominciare quando ancora certi movimenti si apprendono in modo istintivo, automatico.

Da quando era piccolo ho sempre sognato che diventasse un giocatore. L’avevo già portato sul campo quando aveva pochissimi anni, ma era troppo piccolo. La vera scintilla si è accesa quando l’ho portato a Marsiglia per vedere una gara dei mondiali, Italia contro Nuova Zelanda. Da quel momento in poi – avrà avuto 5 o 6 anni – ha iniziato a interessarsi e il rugby è entrato rapidamente nella sua vita. Grande riconoscenza va anche alla mamma, ancor più patita di me, che lo ha accompagnato per anni agli allenamenti, in trasferta, nei terzi tempi. Ci siamo entrambi goduti questa bella esperienza di genitori in un mondo, quello del rugby, che è sano e vivo.

Io stesso ho imparato tanto, ad esempio a stare zitto. Tante volte da bordo campo sono tentato di dare indicazioni – come ex giocatore, forse ne avrei anche titolo… – ma Arno mi ha insegnato che disturberei lui e l’ambiente. C’è un allenatore, ci sono dei compagni di squadra, e c’è anche lui che deve imparare a sbagliare e correggersi da solo.

Anche questo è parte dell’insegnamento di questo sport, insieme alla forza di volontà, la lealtà, la caparbietà, lo spirito di sacrificio e l’altruismo. Questi i valori del rugby che mi hanno formato e che ho cercato di trasmettere a mio figlio, che penso li abbia assimilati per osmosi.

Nella foto: Di Puccio - Sodini - Rinaldi - Trinca (CUS Firenze Rugby, anni 70)

 

Il rugby ai miei tempi era diverso, la nostra era una dimensione quasi pionieristica. Eravamo un manipolo di “scalcagnati”, con un grande allenatore, Mario Lodigiani, che ci accolse, ci allevò e ci forgiò. Appena finita la scuola rientravo a casa, a Novoli, prendevo due autobus e arrivavo al ‘Padovani’, dove facevo le 7-8 di sera sul campo. I miei genitori spesso non sapevano neanche dove fossi. E avevamo pochi mezzi, a partire dagli spogliatoi. Ricordo ad esempio la stufa, la stessa che doveva scaldare sia la stanza che l’acqua della doccia, e la segatura in terra che spesso restava la stessa di anno in anno!