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Roma

Afro-italiani tra nuove e vecchie identità

Una legge ingiusta che mina il senso di uguaglianza dei diritti. Davide Valeri ci racconta come la cittadinanza debba essere un diritto.

 

L’idea che l’Italia di oggi sia il risultato storico di incontri tra molteplici culture nel corso dei secoli è ancora poco interiorizzata all’interno del dibattito pubblico sulla storia e sull’identità nazionale. Entrambe queste sfere richiamano il tema della memoria e nel nostro paese quest’ultima è stata vittima della politicizzazione portata avanti dal regime fascista durante il ventennio. Un periodo nel quale l’Italia sosteneva l’esistenza di una gerarchia razziale in cui i popoli bianchi “ariani” (Germania e Italia) erano superiori ai popoli con pigmentazioni diverse (i neri erano all’ultimo gradino della scala razziale).

Il regime definì gli italiani come di razza bianca ariana e, successivamente, ariani mediterranei (un paradosso in termini). Come ha osservato Mauro Valeri nel suo libro “Afrofobia” questa operazione di whitewashing (rimozione di ogni forma di meticciato o di scambio culturale) coinvolse tutti gli aspetti della cultura: la musica, il cinema, l’arte e la letteratura. Tutto ciò che poteva accennare ad un possibile mescolamento tra culture o persone diverse veniva censurato in quanto minaccia alla “purezza” italiana.

Si è arrivati poi all’esclusione di persone nere e meticce italiane dalle scuole e dalle accademie militari con la motivazione che un nero o un meticcio italiano non poteva comandare un bianco italiano. Per il razzismo di Stato il colore della pelle e l’ascendenza africana erano più importanti della cittadinanza acquisita. Questa operazione del regime servì prima a legittimare nel 1935 l’invasione dell’Etiopia come una vera e propria “guerra razziale” (noi bianchi, moderni e cattolici contro loro neri e selvaggi) e poi nel 1938 l’emanazione delle leggi razziali.

Per far accettare la narrazione della bianchezza italiana il regime estromise dalla storia nazionale tutti quei personaggi, quelle storie e quegli episodi in cui più culture si erano fuse trovando una dimensione comune. Nonostante questo clima di convinto suprematismo bianco italiano le altre popolazioni non credevano alla “bianchezza” italiana. I tedeschi anche se nostri alleati ci consideravano mediterranei mentre gli emigrati italiani in nord America e Australia venivano discriminati in quanto non bianchi (li chiamavano spregiativamente black italians). Questo a conferma di quanto etichette del tipo “bianco”, “nero” o “giallo” siano il prodotto di costrutti sociali non biologici.

Nel dopoguerra sono state decostruite sia la narrazione dell’identità italiana come “ariana” sia, in parte, quella della “bianchezza”. Tuttavia le commistioni culturali alla base della storia italiana passata o recente non sono state ripescate dal dimenticatoio in cui il fascismo le aveva riposte, lasciando spazio a chi ancora oggi è convinto che la storia italiana sia bianco-centrica. Le ragazze e i ragazzi afro-italiani si trovano quindi a crescere in un paese estremamente meticcio (anche per via della posizione geografica) che però si racconta come fisso nel tempo e rinnega o sottovaluta la dimensione interculturale peculiare della sua storia.

Un paese in cui la legge sulla cittadinanza gioca tuttora un ruolo profondamente politico. Una legge che fa ancora riferimento al vincolo di sangue con la propria nazione (ius sanguinis), riconoscendo il diritto alla cittadinanza italiana a chi non ha mai messo piede in Italia ma ha un lontano antenato italiano (come molti sudamericani) e non a chi nasce, cresce e studia in Italia da genitori stranieri. Si tratta di una legge ingiusta. Una legge sbagliata che mina il senso di giustizia e di uguaglianza dei diritti che uno stato democratico dovrebbe garantire. Gli afro-italiani spesso faticano a raggiungere posizioni apicali nel loro settore anche a causa di questa legge sulla cittadinanza che non li riconosce come italiani e li costringe a vivere da stranieri nella loro terra. Una condanna brutale che bisogna fermare cambiando la legge sulla cittadinanza.  Solo così riconosceremo la cittadinanza come un diritto e non come una gentile concessione. (di Davide Valeri)

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