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Roma

Filo spinato: quanto siamo distanti?

Insieme a Gianfranco Schiavone e Alessandra Morelli abbiamo affrontato le dinamiche dei rifugiati nella rotta balcanica e in Niger.

 

In questo primo dei due appuntamenti speciali dell’#UispRomaTv organizzati per la XVII settimana d’azione contro il razzismo promossa da Unar, è stata posta grande attenzione al mondo dei rifugiati, dalla rotta balcanica al Niger cercando sia di evidenziare le attuali problematiche sia di capire come si può superare il filo spinato che molte volte ci divide, con la partecipazione di Gianfranco Schiavone, direttivo ASGI e presidente ICS, e Alessandra Morelli, responsabile dell’alto commissariato dell’ONU per i rifugiati in Niger.

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“In questo momento viviamo con degli episodi di inaudita violenza” ha esordito Gianfranco Schiavone per raccontare il mondo dei rifugiati. La rotta balcanica mette in luce questi episodi più di altre zone perché sono vicende che accadono nel cuore dell’Europa. Si parla di migranti che arrivano nel Vecchio Continente attraverso questa rotta via terra e sono in fuga da aree del mondo dove ci sono i maggiori conflitti. “Parliamo della Siria, dell’Iraq, dell’Afghanistan, parliamo di conflitti decennali dove sono presenti violenze politiche in sistemi autoritari. Un’area che purtroppo produce rifugiati per definizione”. Quali sono le azioni di protezione per le persone in arrivo? “Nessuna. Una caratteristica della rotta balcanica – prosegue Schiavone – è quella di non aver nessun programma di protezione e di reinserimento per queste persone nonostante l’Europa lo avesse promesso in un accordo del 2016”.

Al momento ci sono quattro miliardi di persone bloccate in Turchia, la stragrande maggioranza è formata da rifugiati (siriani e afgani), che non possono tornare indietro né rimanere in Turchia perché il Paese non offre una dovuta protezione dal punto di vista giuridico. Le persone possono quindi solo andare avanti e da qua nasce la rotta balcanica. “La rotta balcanica è una rotta violentissima perché invece di attuare programmi di protezione delle persone, di fatto mette in atto programmi di respingimento (come il caso della Croazia) o di confinamento”. Quando i migranti si avvicinano all’Europa, la frontiera tra la Croazia e la Bosnia rappresenta il punto più violento che c’è in Europa perché ci sono respingimenti di decine di migliaia di persone. Queste persone sono respinte con una violenza che non ha pari nella storia dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. “Il respingimento croato-bosniaco – continua Schiavone – consiste nella sottrazione dei pochi averi che le persone hanno (compresa la rottura del cellulare), nel denudamento delle persone che vengono poi picchiate e seviziate e nel ritorno a piedi per alcune decine di chilometri in Bosnia”. Il tutto è considerato una manovra di alleggerimento perché la persona che viene respinta non deve essere di nuovo in quel posto domani.

Cosa può fare lo sport sul fronte dell’accoglienza? “Lo sport può contribuire alla diffusione della conoscenza attraverso messaggi semplici. L’obiettivo – conclude Schiavone - è quello di aprire la mente perché questi fatti che avvengono non sono visibili se non si va a cercare o ad approfondire. L’invisibilità deve essere svelata. Il messaggio che lo sport può fare arrivare è quello di dire: vai a guardare e scoprirai che queste cose accadono e ti riguardano. Da questo punto di vista può essere un contributo fondamentale per avviare questo piccolo percorso di consapevolezza”.

La situazione in Niger non è migliore di quella della rotta balcanica. Pochi giorni fa due villaggi, ai confini del Mali, sono stati brutalmente attaccati da forze jihadiste che avevano un obiettivo chiaro: quello di eliminare e destabilizzare tutto ciò che è quotidianità. “137 civili innocenti morti che si vanno ad aggiungere ad altri di poche settimane fa – racconta Alessandra Morelli - e che portano il bilancio quasi a 200 persone nelle ultime due settimane. Questo per via di una guerra asimmetrica che non trova soluzione perché non sappiamo più parlare di pace”.

La Uisp ha incontrato Alessandra Morelli nelle sale dell’Unar in un evento in cui era coinvolta anche la squadra della Liberi Nantes con l’obiettivo di riconoscere l’importanza dello sport per l’inclusione nella società dei rifugiati. “Sport come cura di sé e come cura per gli altri. Durante il periodo di transito in Niger, lo sport ha una valenza importante. Insieme alla mia collega Marzia Vigliaroni abbiamo messo al centro lo sport come attività psico-sociale. Queste persone per anni hanno vissuto in modalità “sopravvivenza” – sottolinea la Morelli - e in questi stadi si perdono diverse caratteristiche, tra cui lo sradicamento e l’ancoraggio alla quotidianità della società. I migranti che sono in cammino vivono in modalità sopravvivenza e arrivano in Libia dopo anni di cammino. Per quelli che sopravvivono, lo sport è proprio riancorarsi nella realtà attraverso la sperimentazione delle proprie capacità e dei propri talenti. Una riappropriazione del proprio corpo che è stato torturato e denigrato per molto tempo. Per molte donne l’attività fisica è un riappropriarsi del proprio corpo e della propria femminilità spezzata. Sport infine come disciplina, come spazio per apprendere le regole che si sono perse nel tempo”.

La politica dei volti innesca la solidarietà come bussola di risoluzione e fa rinascere il sentimento di un’umanità comune. La solidarietà può sopravvivere di fronte ai fili spinati? “Io voglio dire di si con tutte le mie forze perché la solidarietà ci appartiene. Senza di essa il mondo è morto – conclude Alessandra Morelli - non c’è l’umano. La solidarietà è parte fondante della democrazia e ha dei valori laici fortissimi. Sopravvivrà se persone come noi decidono di far parte di quell’umanità che sceglie la solidarietà come bussola di risoluzione dei problemi e come senso di appartenenza di un’umanità sola”.

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