Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Le quattro vite di Katia Serra

Un'intervista alla calciatrice, allenatrice, dirigente Aic e commentatrice Rai che continua, anche grazie a un progetto nato dalla collaborazione con la Uisp, a impegnarsi per la promozione del calcio femminile

Katia Serra intervistata negli uffici Uisp Emilia Romagna

di Chiara Gallo


BOLOGNA -
 Era ospite oggi della Uisp Emilia-Romagna, per organizzare le prossime tappe del progetto "G.O.L. - Genere Oltre il Limite", finalizzato a promuovere il calcio femminile. Katia Serra, donna entusiasta e coinvolgente, ha un passato come calciatrice ai massimi livelli, allenatrice di calcio ed è dirigente dell'Associazione italiana calciatori e commentatrice Rai. Di queste quattro vite intrecciate con lo sport ("ma ne vorrei sette come i gatti", dice lei) abbiamo parlato nella nostra redazione.

Katia, cosa ti ha spinto a giocare a calcio? 
"Il calcio fin da bambina ce lo avevo nel sangue. Me l'hanno chiesto in molti, e questa è l'unica risposta che riesco a dare. Fin da piccola avevo la passione per la palla, fosse a casa con mio fratello o a scuola con i compagni. Altri motivi non riesco a trovarne. Il sangue e mia mamma. Strano a dirsi ma è così: una grande spinta verso questa passione me l'ha data mia mamma. Poi io sono sempre stata una 'ribelle' e la mia famiglia non poteva che assecondarmi in questa mia passione. Non aiutarmi però. Se volevo qualcosa me la dovevo cavare da sola. E questo mi ha spronata sempre di più e mi ha fatto maturare velocemente".

Quali ostacoli hai incontrato nel corso della tua carriera sportiva?
"Il primo proveniva dalla percezione che gli altri avevano di me, una ragazzina che va controcorrente e decide di giocare a calcio. Non avevo credito agli occhi degli altri genitori, degli spettatori delle tribune, che a fine partita faticavano a credere io fossi la stessa giocatrice che avevano visto in campo. Questo loro atteggiamento mi ha sempre fatto sentire in difetto, ma allo stesso tempo mi motivava a continuare. Gli ostacoli poi sono stati anche di carattere organizzativo, poiché i campi dove mi allenavo erano distanti parecchi chilometri da casa e raggiungerli, da minorenne senza mezzo di trasporto, non era per niente semplice. Inoltre, purtroppo, ostacoli ne ho riscontrati anche all'interno delle società in cui ho giocato. In non poche occasioni è mancata da parte loro la professionalità. E per una ragazza come me che di carattere le cose o le fa bene o non le fa questo non poteva essere tollerato. Il pallone, certo, ci univa, ma al di fuori dal campo mi sentivo un pesce fuor d'acqua, ero spesso nervosa e arrivavo anche allo scontro perché sentivo che mancava qualcosa. Mancava serietà e professionalità nella gestione della squadra".

Calciatrice sì, ma anche allenatrice, dirigente Aic e commentatrice tv? Aspetti positivi e negativi di queste tue quattro vite? Cominciamo da Katia calciatrice.
"Sono stata calciatrice per 25 anni della mia vita, e mi sono divertita tanto. Per me divertirsi era allenarmi, fare le partite, girare il mondo, conoscere persone. E tutto questo era possibile grazie al pallone. E vedere che, giorno dopo giorno, superavo i miei limiti, mi miglioravo, era importante per il mio essere atleta, per tenere viva la mia passione. Ho scelto uno sport di squadra perché mi è sempre piaciuto relazionarmi, confrontarmi con gli altri, per trasmettere le mie idee e al tempo stesso per arricchirmi delle idee degli altri. In questi 25 anni ci sono stati anche aspetti negativi, soprattutto legati all'organizzazione delle squadre. Io sono sempre stata una persona che guarda avanti, che anticipa i tempi, ed ero sempre fuori tempo rispetto alle società in cui giocavo. La cosa più negativa, però, è stata l'infortunio al ginocchio quando avevo quindici anni. Un infortunio già grave di per sé, che se avviene prima dello sviluppo segna ancora di più il corpo di un'atleta. In tutta la mia carriera ho subito sei interventi, e nonostante questo, quello che mi ha fatto sono risucita adandare avanti grazie al mio carattere".

Katia allenatrice, invece?
"La mia carriera d'allenatrice, invece, è stata breve, ma ricca di soddisfazioni. Con la rappresentativa Under 15 dell'Emilia-Romagna ho vinto il trofeo delle regioni. Difficile, in questo contesto, è stata la selezione delle ragazze da far giocare e il confronto con i genitori. Quello che mi rimane di questa esperienza, però, va ben oltre l'appagamento della vittoria: è il segno che le giocatrici hanno lasciato su di me, e che io ho lasciato su di loro".

La tua carriera nell'Aic?
"La mia nomina a dirigente Aic è arrivata nel 2005, prima ero un'associata. Da subito ho dovuto lottare per far capire le esigenze del settore femminile. Con il cambio di presidenza, fortunatamente, questo dialogo si è semplificato. Sono riuscita, a forza di ripeterlo, a trasmettere che le campagne puntano al bene collettivo, non ad obiettivi personali, che a guidarle è l'esigenza, non la convenienza. Abbiamo raggiunto un equilibrio e un'unità che ci configura come categoria, unita nel lavoro, nelle frustrazioni e nei successi. Stiamo costruendo una struttura sensibile verso l'oggetto, non i soggetti. Perché un domani, quando cambieranno i soggetti, c'è bisogno che la lotta per l'obiettivo continui, che il servizio che si offre alle calciatrici non s'interrompa. In quel caso sarebbe una sconfitta per tutta la categoria".

Dulcis in fundo, Katia commentatrice.
"La mia carriera televisiva, invece, è nata per caso. Ero a vedere una partita e mi è stato chiesto se fossi interessata al ruolo di commentatrice. Un'altra sfida che non potevo non cogliere, un'altra opportunità per mettermi in gioco e imparare. Una sfida vinta: a distanza di cinque anni, mi sento accettata dal pubblico e dai colleghi che riconoscono in questo mio ruolo e per le mie competenze. All'inizio, però, non era così, anzi, erano umiliazioni e risate. Una donna non sa giocare a calcio, né è capace di commentarlo. Ho provato che non è questione di essere uomo o donna, ma è questione di capacità, competenze e professionalità".

E tra questi quattro ruoli quale preferisci?
"Scegliere è difficile, ma penso sia quello televisivo perché mi permette di stare più a contatto con il campo, di mantenere il legame con il gioco. Ciò non toglie che gli altri lavori li faccio non perché devo ma perché ci credo e perché mi annoierei a fare tutte le settimane, tutti i giorni le stesse cose. Questa varietà mi permette di avere una vita professionale trasversale, stancante ma allo stesso tempo appagante".

Quali sono i prossimi obiettivi, tuoi personali e per la promozione del calcio femminile?
"Mi sto impegnando per la realizzazione del professionismo del calcio femminile, crescendo personalmente anche come figura di riferimento per le donne che vogliono fare sport, essere considerata come una guida, un'esperta, i cui consigli siano presi seriamente in considerazione. Personalmente, per quanto riguarda l'aspetto televisivo ho il sogno di commentare la nazionale maschile di calcio. Essere la prima donna a riuscirci sarebbe un grande risultato per me, ma andrebbe di pari passo con tutto il resto. Se una donna riesce ad affermarsi come commentatrice di calcio maschile, vorrebbe dire che le donne che fanno sport cominciano ad avere un riconoscimento reale. Io mi considero un gatto dalle sette vite, e in queste vite mi vedo allenatrice, direttore sportivo, dirigente di un liceo sportivo dove scuola e sport vanno di pari passo e si dà importanza a entrambi per diventare cittadini migliori in futuro. Mi piacerebbe dirigere anche un centro sportivo, in cui tu vieni e vedi tanti bambini che fanno diverse attività. Sono esagerazioni, lo so, bisogna fare delle scelte. Ma io mi vedo affermata nell'ambito sportivo, o anche come testimonial per associazioni che portavano avanti campagne sociali. E per quanto riguarda il calcio femminile, vorrei vedere in Italia quello che accade oltre i confini: che il calcio diventi un mestiere e le calciatrici possano vivere quel sogno che io non ho vissuto e sentirsi calciatrici in Italia".

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