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Diritti in campo, il progetto Uisp contro le discriminazioni

Parla Mongi Ayari, tunisino che grazie allo sportpertutti ha iniziato a dire la sua

Fischio d’inizio per “Diritti in campo” nuovo progetto nazionale Uisp contro le discriminazioni, con l’obiettivo di mettere in fuorigioco i problemi economici e le barriere linguistiche e culturali che limitano l’accesso dei migranti allo sport. Al seminario nazionale di presentazione del progetto (Frenze, 27-28 ottobre), che coinvolgerà otto grandi città italiane, abbiamo incontrato Mongi Ayari, presente come rappresentante dell'Uisp Torino: “Ho incontrato l’Uisp Torino nell’aprile del 2009, nell’ambito di una collaborazione per il progetto Arcobaleni in campo - racconta Mongi - Ho 45 anni, sono in Italia dal 1992 e le mie origini sono tunisine. Attraverso lo sport sono riuscito ad applicare un positivo rapporto tra mente e corpo. Mens sana in corpore sano è un detto che si usa anche nel mio paese. In termini di relazioni lo sport mi ha aiutato molto ad inserirmi e a confrontarmi con tante persone. Oggi vivo con mia moglie a Torino. E’ in arrivo una bambina che dovrebbe nascere tra un mese. Ci chiediamo se sarà una cittadina italiana perché nascerà qui. Però le leggi italiane questo non lo prevedono e secondo me è profondamente ingiusto".

Che cosa ti ha colpito di più nell’Uisp?
“La possibilità di contare qualcosa, di poter votare. Venivo da un paese come la Tunisia dove l’espressione del voto non era possibile. Con l’Uisp ho imparato a decidere, a contare, a dire la mia. Oggi faccio parte del Consiglio direttivo dell’Uisp Torino”.

Al seminario di Firenze hai parlato della regola del tempo zero: che cos'è?
“E' un’usanza che mi sono portato dietro dalla Tunisia. Consiste nel far disporre le due squadre di calcio in cerchio, prima dell’inizio della partita, compreso l’arbitro e fare una breve presentazione ad alta voce: nome, cognome e che cosa si fa nella vita. Questo contribuisce ad abbassare il tasso di agonismo attraverso una conoscenza tra i singoli giocatori. Il fatto di presentarsi crea un ambiente di confidenza e stempera le animosità. Inoltre, insegna ad usare lo sport come strumento di socializzazione, che può proseguire anche al di fuori del campo, quando si sta negli spogliatoi o sotto le docce. O magari anche quando si torna a casa”.

Inoltre hai fornito alcuni consigli e linee guida per il progetto Diritti in campo: ce li puoi riassumere?

“Ho messo a disposizione la mia esperienza e le mie osservazioni attraverso Arcobaleni in campo e i progetti con le piscine a Torino. La cosa fondamentale è non lasciare le squadre di immigrati da sole, c’è sempre bisogno di un punto di riferimento, c’è bisogno di chiamare telefonicamente prima delle partite per sentire se tutto è a posto e ricordare l’appuntamento per la partita. Poi cercare di sollevare economicamente il più possibile questo tipo di squadre. Tra gli immigrati c’è chi non può permettersi di intervenire economicamente ma anche chi non vuole, perché confida in una sorta di assistenzialismo. Occorre saper intervenire e distinguere. Poi ci sono problemi di calendario: conviene rispettare abitudini e convinzioni religiose. Non conviene fare tornei durante alcuni periodi, come il Ramadam, o durante la mattinata, anche per problemi di lavoro. Esperimenti come quello di formare squadre miste, uomini e donne, va verificato caso per caso, ripettando usi e costumi. Ha funzionato, ad esempio, tra i sudamericani e non ha funzionato per i musulmani. Anche le donne chiedono ambienti protetti e separati”.

(I.M.)

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