Progetti

Far parlare i corpi: il diario di Loredana Barra dal Libano

Prosegue la missione Uisp nel nord del Libano, nell'ambito del progetto “Ana Kamen (Phase 2)". Ecco il racconto delle ultime giornate di formazione

 

Loredana Barra, presidente Uisp Sardegna e responsabile Formazione e sviluppo Uisp, e Vincenzo Spadaro, operatore Uisp Iblei, sono nella località di Kobayat, nel nord del Libano, per la prima missione del progetto “Ana Kamen (Phase 2)". Obiettivo del viaggio è promuovere l’accesso a servizi educativi inclusivi e di qualità per i bambini libanesi vulnerabili e i rifugiati, promuovendo l’inclusione educativa e sociale delle ragazze e dei ragazzi in quattro scuole pubbliche libanesi. Il progetto è finanziato dall’AICS-Agenzia Italiana di Cooperazione allo Sviluppo e con la partnership di WeWorld-GVC. 

L’Uisp, attraverso i suoi operatori qualificati ed utilizzando lo sport ed il movimento come strumenti, realizzerà missioni in loco volte a migliorare la consapevolezza e le conoscenze degli insegnanti per promuovere l’inclusione sociale ed educativa delle persone svantaggiate.

Continuiamo a seguire il viaggio Uisp con il racconto in prima persona di Loredana Barra e Vincenzo Spadaro (leggi la prima puntata).

"Siamo arrivati al primo giro di boa della missione. Oggi (domenica 28 settembre) è terminata la prima formazione dedicata alle persone che, all’interno della comunità di Al Machha, si occupano dell'educazione di bambini e bambine.
Siamo nel nord del paese, nella zona di Akkar, a pochi km dalla Siria, una zona che ospita un numero non censito, ma altissimo, di sfollati. Prima di iniziare il training abbiamo osservato una realtà che oggi, a distanza di 5 anni dall'ultima missione, ci arriva come un forte pugno nello stomaco: la guerra, gli attacchi coi droni che persistono al sud, la tensione che percepiamo dai nostri partner in ogni spostamento, il sospiro di sollievo quando rientriamo alla base, la crisi economica e sociale, il popolo in ginocchio e un welfare su base confessionale che spazza via il valore del welfare su base sociale.
… E i bambini e le bambine, sfollati e poveri, spesso non accettati dal sistema scolastico, stanno in giro nelle strade a raccogliere quello che può essere utile, buttato via da qualcuno che aveva di più, con un sacchetto in mano, oppure lavorano nei campi o nelle officine. Solo qualche bimbo "fortunato" il pomeriggio va a scuola, e nel frattempo si spegne, negli occhi di tanti di loro, la luce tipica dell'infanzia. Abbiamo per qualche giorno l’onore di giocare con queste piccole persone, che colpe non hanno, e di riaccendere attraverso il gioco e il movimento una scintilla nei loro e nei nostri occhi… Far parlare i corpi, è sempre molto più efficace di qualunque parola.
I bimbi hanno occhi grandi che guardano dentro e mettono a nudo il bambino interiore che c’è in ognuno di noi. Gioiamo ad ogni sorriso, sentiamo l'energia che ci avvolge e lasciamo il mondo fuori, perché il nostro dentro sono loro.
In un contesto simile, con gli adulti che si prendono cura dei bambini e delle bambine, non potevamo che metterci in una posizione di ascolto: i bisogni di tutta la comunità, la fatica enorme delle insegnanti della scuola pubblica, mal pagate e demotivate, le classi sempre più numerose, la mancanza di materiali e strumenti, le famiglie che hanno difficoltà a guardare in faccia i bisogni speciali dei loro figli e uno Stato troppo distante. Gli occhi degli adulti sono profondi, carichi di domande e di paure. Ma sono anche pieni di amore. Per i propri figli, per i propri alunni, per cercare di fare il meglio con ciò che hanno. E qui hanno veramente poco.
 
Cerchiamo di dare risposte, ma soprattutto speranza, motivazione, sosteniamo la passione delle insegnanti attraverso approcci che utilizzano il movimento come strumento inclusivo e di apprendimento. A tutti gli adulti che incontriamo doniamo la potenza del movimento, diamo la possibilità di sperimentare sui loro corpi questa potenza. Capiscono, giocando e muovendosi con noi, quanto impegno cognitivo è necessario per poter giocare bene, imparano e sorridono, ringraziano, vanno via leggere e sicure perchè hanno imparato che possono permettersi di ascoltarsi e di avere fiducia nell'altro; capiscono che possono prendersi cura insieme, ognuno nel suo ruolo e con le sue possibilità, dei bambini. Capiscono che possono aspettare che crescano, con i loro tempo e il loro modo, ognuno al proprio passo.
Stiamo costruendo semi di comunità.
Sappiamo bene che il problema è anche sistemico. La comunità ha bisogno di essere sostenuta. Ha bisogno di non sentirsi isolata, ha bisogno di essere soddisfatta, in questi luoghi così lontani e così dimenticati, anche nei bisogni primari. Le insegnanti possono salvare le future vite, proteggono la Terra di domani, costruiscono ponti e strade che potranno portare lontano.
Noi abbiamo seminato, loro dovranno coltivare, innaffiare, concimare, proteggere.
E forse un giorno raccoglieranno i frutti.
Intanto si sono messe le scarpe da ginnastica. Sono pronte a camminare, alcune possono già correre e tutte insieme potranno saltare gli ostacoli. È un primo risultato”.
 
“Sotto un cielo opaco e un brusco cambiamento di temperature, abbiamo concluso il secondo giro di boa del progetto Ana Kamen. Questo tipo di formazione si chiama Trainer of trainers-formazione di formatori: saranno loro, con le loro domande, i loro dubbi e la loro consapevolezza a mettersi in gioco. Saranno loro, da domani a passare la palla, la conoscenza, il sapere. Saranno loro, domani, a dare strumenti a chi, in questa terra massacrata, povera e abitata da persone estremamente diverse tra loro per cultura, religione e abitudini sociali.
Saranno loro a moltiplicare per 10, per 100 o per 1000, la consapevolezza raggiunta in questi due giorni lunghi, faticosi ma ricchi di significati. Saranno loro a insegnare a far giocare, a far muovere queste piccole persone, a lasciare spazio di crescita, di fiducia e di ascolto. Saranno loro ad insegnare a chi incontreranno, come utilizzare lo sport, il movimento e il gioco come strumenti di inclusione, rafforzando le capacità dei membri della comunità per sostenere nella crescita le giovani generazioni libanesi vulnerabili e i troppi sfollati e rifugiati.
Saranno loro ad insegnare ad altri che introdurre nell'istruzione e nella didattica disciplinare il movimento e lo sport facilita l'apprendimento. Saranno loro ad insegnare che per capire il bambino dobbiamo guardarlo, dobbiamo ascoltarlo, e non solo dirigerlo come direttori d'orchestra. Abbiamo insegnato, ma sopratutto abbiamo insegnato ad insegnare.
E mentre insegnavamo abbiamo imparato.
Ed è arrivato il tempo, per noi, di lasciare spazio a loro, consapevoli di aver dato e fatto tutto ciò che poteva essere utile per diffondere i valori, i saperi e gli approcci che da sempre contraddistinguono l'Uisp: lo sportpertutti, cucito su misura per ogni persona. Noi abbiamo dato tutto, non ci portiamo a casa nessun segreto, nessuna strategia, nessun sapere. Ma siamo tornati al nostro alloggio più ricchi di prima, perchè siamo certi che qui lasciamo persone in grado di moltiplicare quello che abbiamo dato.
Oggi però un pezzo del nostro cuore è insieme alla Flotilla che in queste ultime ore ci ha regalato un vento di speranza e consapevolezza che ognuno di noi puó fare qualcosa di buono per gli altri, che ognuno di noi nelle piazze, nelle strade e nelle scuole può contribuire a mettere la parola fine ad una guerra che i bambini non li rende solo vulnerabili, ma li uccide uno dopo l'altro.
Pratichiamo la pace.
Ognuno di noi è il motore di un cambiamento che riguarda tutti: dal Nepal al Madagascar, dal Marocco all'Italia stessa.
Questa nostra missione in Libano si inscrive in uno scenario globale di un nuovo modo di fare sport, cultura, formazione.
Noi abbiamo deciso da che parte stare. Dalla parte di tutti”.
 
Ecco l'ultimo contributo di Loredana Barra, prima di tornare in Italia: "Con profonda commozione e orgoglio per quello che stanno facendo i cittadini italiani nelle piazze, in supporto alla Flottilla, nonostante la stanchezza e la tensione di questa lunga missione in Libano affrontiamo con Vincenzo l'ultimo giro di boa della formazione e ci spostiamo ad Al Awade. Da qui la Siria la puoi quasi toccare, la respiri, la senti. Il viaggio verso il confine è lungo, in strade strette e a tratti distrutte, con dossi dello stesso colore dell'asfalto che vedi solo all' ultimo momento e che ti pesano sulla schiena. I check-point sempre più numerosi e più attenti, perché qui, in questa striscia di confine, dovunque ti giri sei in Siria e l'attenzione è alta. Al Awade è un villaggio rurale abitato da persone che sino ai primi anni 90 non esistevano, né per il Libano né per la Siria. Nati al confine, seppur in territorio libanese venivano considerati siriani. Lo stato siriano, ovviamente non li riconosceva poiché nati in terra libanese. E così sono rimasti per anni, senza diritti, senza identità, senza stato e senza possibilità di accedere ad un qualunque ascensore sociale. Hanno vissuto per anni di contrabbando, per un motivo semplice: riconoscerli come libanesi significava riconoscere troppi musulmani sunniti che in una repubblica parlamentare confessionale significava rompere equilibri, creare disordini, avere un tipo di rappresentanza che i governi per anni non hanno voluto riconoscere.
 
Per fortuna però un politico illuminato ed equo ha creduto nella giustizia laddove giustizia,  in quel momento, non coincideva con la legalità. Credo fermamente che il senso ultimo della pedagogia sia quello di insegnare a pensare, ma ancora di più quello di insegnare ad aspirare alla giustizia. Perché se ciò che è legale è ingiusto, se le nostre norme non sono giuste, allora dobbiamo cambiarle, se abbiamo il potere di cambiarle. Tutti abbiamo il potere, ognuno nel suo ruolo, di cambiare quello che si è dimostrato ingiusto, quello che si è dimostrato inaccessibile, quello che si è dimostrato curvo, non "diritto".
La giustizia è innanzitutto avere uno sguardo “diritto”. E in questo villaggio, abitato da gente profondamente diffidente, verso l'altro, verso comunità esterne, verso chi non ha vissuto l'ingiustizia, abbiamo aperto una breccia nel cuore. Noi così diversi, così italiani, con una gestualità non appropriata per loro e forse un po' irriverente e non comprensibile. Noi che ci sintonizziamo e che riusciamo con rispetto a fermare quegli atteggiamenti automatici e a far vedere l'obiettivo comune, siamo riusciti a giocare insieme a loro, a coordinare i corpi, ad accendere scintille di sapere, a lasciare gioia, ad accettare il diverso perché il diverso, in realtà, può donare tanto e anche farci vedere le cose da altri punti di vista, all'interno della giustizia e del bene. Questo deve fare la pedagogia, questo deve fare la formazione: educare le persone, grandi o piccole che siano, a voler essere giuste". (di Loredana Barra e Vincenzo Spadaro)